Per una critica dell’architettura oltre il genio e la poetica

books | roberto damiani

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Da qualche mese è uscito per Quodlibet Il Progetto dell’Autonomia. Politica e Architettura dentro e contro il capitalismo, edizione italiana di The Project of Autonomy, pubblicato negli Stati Uniti nel 2008. L’autore, Pier Vittorio Aureli – architetto, fondatore con Martino Tattara dello studio Dogma a Bruxelles, ex docente al Berlage Institute di Rotterdam, ora all’ Architectural Association di Londra e a Yale -, è chi più di altri negli ultimi anni ha dedicato la sua ricerca a una ridefinizione della critica e della teoria dell’architettura, il cui oggetto non siano più il genio e la poetica formale prodotta dal singolo architetto, ma il progetto della metropoli neocapitalista.

The Project of Autonomy apre la serie di volumi pubblicati da Aureli negli anni successivi, come il controverso The Possibility of an Absolute Architecture (The MIT Press, 2011), Less is Enough: On Architecture and Ascetism (Strelka Press, 2013) e The City as Project (Ruby Press, 2013), nei quali l’autore mette in luce i limiti del dibattito architettonico contemporaneo e presenta alcune tesi per elaborare un’alternativa alla sua crisi, a partire dalla riappropriazione da parte dell’architettura della sua dimensione politica.

Il concetto dell’autonomia è la prima di queste tesi. Postulata come fondamento per una nuova epistemologia del progetto, l’architettura – ma il ragionamento potrebbe valere per qualsiasi altra pratica – si riconosce come soggetto politico e sovverte i suoi modi e rapporti di produzione, pur rimanendo parzialmente all’interno delle stesse strutture che li producono e governano. Come ricorda il sottotitolo, l’autore si riferisce alle strutture prodotte dal capitalismo.

Per sviluppare l’autonomia come progetto, nei dieci capitoli del volume Aureli introduce, da un lato, le posizioni di Raniero Panzieri e Mario Tronti elaborate nel movimento operaista, così come il pensiero negativo di Massimo Cacciari; dall’altro, il significato politico del concetto di locus in Aldo Rossi e le forme “radicali” dell’abitare proposte dal gruppo Archizoom. Come anello tra i due gruppi, Aureli inserisce un capitolo assente nella prima edizione in inglese, che si concentra sul lavoro di Manfredo Tafuri e sulla sua critica all’ideologia architettonica, elaborata tra gli anni di Contropiano e la pubblicazione di Progetto e Utopia (1973).

Aureli fa reagire tra loro esperienze eterogenee per presentare il progetto dell’autonomia come un territorio piuttosto accidentato, caratterizzato da una serie di sforzi rigorosi, seppur non sempre coordinati o condivisi, di discussione tra alcuni intellettuali della sinistra italiana e un gruppo di giovani architetti, che cominciarono la loro carriera nei turbolenti anni sessanta. I due gruppi furono accomunati dalla volontà di ridefinire l’intellettuale come autonomo dai condizionamenti dell’ideologia capitalista, mettendo al centro del loro pensiero le implicazioni dello sviluppo tecnologico sulla società e i nuovi strumenti di organizzazione del lavoro immateriale e del territorio.

Uno dei pregi del libro consiste nel costruire uno schema critico che consente di analizzare l’influenza esercitata in Italia dal dibattito interno alla sinistra sul discorso architettonico. Il pensiero operaista, e quello negativo di Massimo Cacciari, ebbero infatti una forte influenza sulla ricerca di Manfredo Tafuri, Aldo Rossi e Archizoom, che riconsiderarono le implicazioni del progetto nell’ottica di una revisione del lavoro intellettuale, e quindi dell’architettura e delle sue forme intese come reificazione della metropoli. Il ruolo dell’architetto come figura “integrata” dell’architetto-professionista, fu da loro sostituita con quella di un intellettuale autonomo rispetto ai processi neocapitalisti. Da qui, come ricostruisce Aureli, nacque il proposito di Aldo Rossi di elaborare una teoria dell’architettura indipendente dai condizionamenti della professione.

Il cambio di paradigma nei modi di produzione del sapere architettonico indusse in questi architetti un atteggiamento realista e dunque consapevole dei cambiamenti imposti dalla società, nella quale – come sostenevano gli operaisti – lo spazio di produzione non è più la fabbrica bensì il territorio della metropoli. Non più le questioni stilistiche o spaziali, ma l’analisi dei fenomeni urbani e il loro progetto costituivano il nucleo di una teoria della progettazione che materializzasse le differenze e i conflitti della città, invece di smussarne le contraddizioni interne. La Vienna rossa, il concetto di locus in Aldo Rossi e il suo progetto “Locomotiva 2” per il nuovo Centro Direzionale di Torino (con Gianugo Polesello), così come la “No-Stop City” di Archizoom, sono presentati da Aureli come progetti canonici, antagonisti sia della tradizione socialista dell’utopia, dei quartieri del riformismo, sia dei nuovi strumenti della programmazione territoriale, come il piano e la megastruttura.

A tal proposito, un secondo pregio del volume di Aureli è il contributo offerto al dibattito italiano e internazionale in merito agli studi su marxismo e spazio – contributo che meriterebbe maggiore attenzione e spazio di una semplice recensione.

Nella ricerca di Marx, dopo la pubblicazione del primo volume de Il Capitale, il rapporto tra spazio e processi produttivi divenne sempre meno rilevante. Negli anni sessanta del Novecento, in Francia, Italia e Inghilterra, geografi europei di scuola marxista cominciarono a interessarsi all’importanza dello spazio nei fenomeni economici globali, ma i loro studi condizionarono poco il dibattito urbanistico e architettonico. L’analisi di Aureli su operaismo, Tafuri, Rossi e Archizoom aggiunge un tassello importante per comprendere come alcuni architetti italiani abbiano saputo sviluppare il pensiero marxista considerando i nuovi modi di organizzazione della città e del territorio, non limitandosi all’analisi di fenomeni storici o alla critica delle soluzioni proposte nel secondo dopoguerra, ma anche e soprattutto elaborando un progetto antagonista. Valga, come esempio su tutti, la lettura della città per parti di Rossi, che fornisce un’analisi urbana su base formale capace di superare le divisioni centro-periferia e città-campagna postulate dal marxismo classico.

Un breve cenno al contesto culturale degli anni in cui il libro è stato elaborato è di aiuto per chiarire cosa abbia stimolato Aureli a considerare il lascito dell’autonomia operaista in campo architettonico. Le esperienze descritte, infatti, appartengono agli anni sessanta, ma le ragioni che spingono a una loro analisi sono radicate negli eventi dei primi anni del XX secolo, quando emerse in Europa una nuova soggettività collettiva, critica nei confronti delle disuguaglianze prodotte neocapitalismo.

Gli interessi di Aureli si legano all’ascesa del post-operaismo, che in quegli anni stava maturando un certo successo nei paesi anglofoni, grazie alla pubblicazione di libri come Empire di Michael Hardt e Antonio Negri (Harvard University Press, 2000). Negli stessi anni degli scontri contro la globalizzazione esplosi a Seattle, Washington, Goteborg e Genova, il neoliberismo supportava una pianificazione urbana e territoriale consapevolmente indebolita, per lasciare campo libero alle attività speculative. Non sarebbe senza fondamento pensare che l’architetto romano abbia visto nel progetto dell’autonomia un’alternativa politica sia al rifugiarsi del dibattito architettonico all’interno della disciplina, sia all’estetizzazione delle forme della città diffusa.

Come interpretare il progetto dell’autonomia? Si tratta di storia, critica, o teoria dell’architettura? La scelta di individuare “momenti”, piuttosto che una “tradizione”, attraverso cui interrogare la relazione tra progetto e autonomia, suggerisce come Aureli non abbia le pretese dello storico e sembrerebbe riconoscersi piuttosto nei panni del critico. D’altronde lo stesso autore, nella prefazione all’edizione italiana, precisa some lo scopo del libro non sia rendere operativi i suoi contenuti, ai fini dell’elaborazione di un “nuovo progetto” dell’autonomia, quanto piuttosto analizzare la formazione di un pensiero architettonico antagonista al paradigma neocapitalista, in reazione all’ebbrezza formalista del “postmoderno”.

Per poter avviare una riflessione sul loro lavoro a prescindere dalle rispettive fortune e sfortune critiche, il libro presenta Manfredo Tafuri, Aldo Rossi e Archizoom in uno stadio “pre-postmoderno” – il Rossi de L’Architettura della Città, piuttosto che quello del cimitero di Modena o dell’Autobiografia Scientifica. Aureli crea dunque lo spazio per una loro rilettura, ma nel farlo, tralascia altri studi che in questi anni hanno messo in luce i limiti di quelle stesse posizioni: limiti che hanno loro impedito di costruire un vero e proprio soggetto politico.

Aureli sostiene l’indipendenza della teoria dalla professione, ma siamo sicuri che in architettura il giudizio sul fenomeno possa lasciare inalterato quello sulla teoria che l’ha prodotto?

La traduzione in italiano del saggio, a distanza di otto anni dalla sua prima pubblicazione, offre un’occasione per mettere in luce tre punti che meriterebbero un approfondimento ulteriore, in particolare: i limiti di una epistemologia dell’architettura fondata su concetti di natura materiale – in senso marxista -; il rapporto tra politica e architettura in Aldo Rossi; e il rischio che l’autonomia diventi una nuova forma di avanguardia, come latente in ogni forma di singolarità.

Sul primo punto, l’autore, non fa molto per ribaltare la sensazione di avere tra le mani un’agiografia compiaciuta sulla svolta intellettuale dell’architettura italiana. L’autonomia come nuova epistemologia del progetto, si fonda su un azzeramento della cultura architettonica che l’ha preceduta, riconosciuta colpevole di essere complice dell’organizzazione capitalista e di funzionare come suo strumento mistificatore.

Nello spazio della metropoli, assimilare l’architettura a mero spazio produttivo, come succede in Tafuri e Archizoom, significa astrarla dall’esperienza sensibile, ritenuta inutile ai fini della costruzione di un soggetto politico collettivo antagonista. Anche qualsiasi forma simbolica è denigrata perché potenzialmente ideologica. L’iconoclastia del linguaggio architettonico precedente – Moderno incluso – raggiunge il suo apice proprio con il gruppo fiorentino e l’azzeramento di ogni dimensione rappresentativa, attraverso un linguaggio non figurativo che dichiara inutile non solo l’attribuzione di una leggibilità, o qualità sensibile agli edifici in un contesto urbano, ma anche il pensiero che essi possano avere “pretese umaniste e riformiste”.

Passando al secondo punto, il concetto di locus di Aldo Rossi potrebbe controbattere simili accuse di una lettura eccessivamente materialista e astratta dell’architettura, ma nel capitolo a esso dedicato Aureli mostra il lato più operativo e militante della sua critica.

L’autore smussa – fin troppo – le contraddizioni presenti nel pensiero politico dell’architetto milanese, scegliendo di non indagare la questione irrisolta tra analisi e progettazione oltre la scala totalizzante dell’edificio. Rossi cercava attraverso il locus un’alternativa all’urbanistica del socialismo utopico e riformista, ma come tale progetto potesse realizzarsi oltre il singolo intervento, non fu mai chiarito. Mettendo insieme il locus e “Locomotiva 2” senza analizzare le conseguenti contraddizioni, l’autore reitera il problema.

D’altronde lo stesso Rossi divenne subito piuttosto scettico sul valore politico diretto di un’architettura. Verso la fine degli anni sessanta, nel momento in cui la dimensione culturale cominciava a prendere il sopravvento su quella politica, anche in reazione agli eventi del 1968, Rossi citava Le Corbusier e l’Unité di Habitation proprio per dimostrare diffidenza sul fatto che “la forma possa nascere dalla realtà politica e sociale e tantomeno possa essere elemento redentore dei conflitti sociali”.

L’analisi di Aureli non aiuta molto a rispondere alla domanda: dove sono lo spazio e il tempo per l’azione individuale e l’interazione collettiva postulate dal locus se l’intervento finisce sempre per risolversi in un’architettura, che come quella di Rossi, ha ampiamente dimostrato di operare soprattutto, se non esclusivamente, come forma eccezionale e totalizzante?

Stranamente, inoltre, Aureli decide di non affrontare il problema del legame tra proprietà e morfologia urbana, che avrebbe potuto chiarire uno degli aspetti meno approfonditi dell’idea di locus di Rossi – potenzialmente, quello più dichiaratamente politico e generalizzabile.

Sul terzo punto, il rapporto tra autonomia e avanguardia, prendendo in considerazione quanto è successo negli ultimi decenni – mi limito a citare il “frammento” o la bigness -, è necessario sottolineare come dietro la formalizzazione dell’autonomia come enfasi delle discontinuità urbane, si nasconda la possibilità inaspettata di ritrovarsi con una serie di singolarità, che proprio per il loro carattere finito e iconico possono essere facilmente metabolizzate e trasformate in prodotti commerciali.

Nel progetto dell’autonomia, non la mediazione, bensì la crisi delle strutture capitaliste e la messa in scena dei loro conflitti diventa l’obiettivo ultimo. La mia sensazione è dunque che al centro di questo nuovo ethos politico ci sia non solo la nostalgia verso la figura solitaria dell’architetto come unico autore, ma anche un’architettura che esiste e trova fondamento urbano solo come espressione della forma in sé, per esempio attraverso il concetto di limite. Il cambio epistemologico proposto dall’autonomia mette da parte non solo il discorso estetico e poetico, ma anche quello sociale, tutti declassati a ricoprire un ruolo secondario. Il vuoto conseguente di ragioni e valori, quando e se cercati al di fuori di quelli formali, rimane ancora una questione aperta in molte ricerche dell’architettura italiana contemporanea.

Il geografo marxista David Harvey parla di “diritto alla città” per contrastare gli squilibri urbani prodotti dal capitalismo: è difficile immaginare quale possa essere un corrispettivo di tale concetto all’interno del progetto dell’autonomia.

Nonostante le riserve, che credo possano costituire occasioni per discutere ed espandere le tesi di questo e altri libri di Aureli, rimane estremamente attuale la sfida che il progetto dell’autonomia pone all’architettura italiana e europea. Come si può costruire una pratica teorica capace di proporre un’unitarietà e realtà politica dell’architettura nella metropoli, senza cedere all’omogeneizzazione dei fenomeni urbani neoliberisti, o alla mistificazione salvifica dell’architetto-artista?

Autore
Roberto Damiani è Postdoctoral Fellow all’università John H. Daniels di Toronto e curatore del nuovo programma di mostre Italy Under Construction promosso e sponsorizzato dall’Istituto Italiano di Cultura a Toronto.

Info
titolo > Il Progetto dell’Autonomia. Politica e Architettura dentro e contro il capitalismo
autore > Pier Vittorio Aureli
casa editrice > Quodlibet
pagine > 192
anno > 2016
prezzo > € 17,00

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