Hanno vinto loro

È sempre più evidente che il surreale caso del Palazzo dei Diamanti di Ferrara faccia emergere, come in provetta, dinamiche profonde e tristemente caratterizzanti la cultura (architettonica) italiana. Tali dinamiche, sono notoriamente oggetto dell’interesse di Luca Silenzi, il cui testo qui pubblicato espone senza mezzi termini la crescente idiosincrasia del nostro Paese per qualsiasi dialogo costruttivo con la propria storia. Credo che varrebbe la pena dedicare ulteriori momenti di confronto, per non dire il prossimo Padiglione Italia, a un tema così spinoso: anche perché ho l’impressione che alcuni degli attori coinvolti in questa assurda performance collettiva, non siano ancora stati citati. DTF

massa critica | luca silenzi

E così hanno vinto. Ce l’hanno fatta, Sgarbi e la sua Fondazione, a mettere di mezzo questo Ministro della Repubblica per annullare l’esito del concorso di architettura per l’ampliamento della Galleria d’Arte Moderna di Ferrara — oggi ospitata a fatica negli spazi dello splendido Palazzo dei Diamanti di Biagio Rossetti. Tutto questo non con un convegno, una lecture argomentata, un progetto alternativo di pari se non maggiore credibilità, ma con una petizione su Change.org

E pensare che la gara in due fasi è stata organizzata secondo le più severe norme in vigore in Italia, il Paese con la coda di paglia più lunga e ipocrita d’Europa. Ed era tra i giurati, proprio per condividere il più possibile le scelte con tutte le istituzioni coinvolte, perfino un Soprintendente ai Beni Architettonici e del Paesaggio, il cui datore di lavoro è proprio il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Nulla da fare per lo studio LABICS, arrivato primo in graduatoria con un punteggio di 90/100 contro ben 69 avversari, in un processo di gara ormai codificato e cristallino, i cui atti, esiti e verbali sono pubblicati online da mesi, fin da tempi non sospetti. 

È successo che sul filo di lana, due ore prima della scadenza dei 24 mesi di silenzio-assenso previsti per l’approvazione del progetto a base di gara, il Ministro ha inviato una “lettera d’indirizzo” alla Soprintendenza, in pratica un vero e proprio atto ostativo: il nulla-osta di competenza per l’opera di ampliamento – concordata preventivamente con l’ufficio tecnico del Comune di Ferrara prima della gara, in alternativa a ben più invasivi interventi di riadattamento di parte del Castello Estense – non verrà mai ottenuto, innescando un pericoloso metodo di intervento a gamba tesa che rovescia, per acclamazione di parte, tavoli istituzionali messi in piedi in anni di duro lavoro. Anche se a ben guardare un certo marchio di infamia per l’operazione era già stato dato da Italia Nostra (“Ipotesi sciagurata”) fin dalle prime fasi di gara, e non era un buon presagio.

Probabilmente a nulla varrà il surreale confronto al MACRO di Roma tra LABICS e Sgarbi dopo la decisione del Ministro, se non per mettere agli atti una incomunicabilità irreparabile tra i dogmatici del conservazionismo tour-court e una visione di buon senso, quasi banale e a questo punto minoritaria, di una storia che si costruisce sovrapponendo strati di contemporaneità.

Momento del confronto tra Labics e Vittorio Sgarbi, pubblicato sul canale YouTube di PPAN

I concorsi, con tutti i loro difetti, sono in teoria uno strumento prezioso previsto dalla legge per valutare tante idee alternative e scegliere pubblicamente (e una giuria competente e libera da pregiudizi è necessaria per questo) la più adatta. I concorsi sono esistiti praticamente da sempre, e nella loro variante che mette alla base della scelta — pur nel rispetto del budget previsto — criteri di qualità ed opportunità hanno anche permesso la realizzazione di opere notevoli, nel frattempo entrate di diritto nella storia dell’architettura.

Il Duomo di Firenze, per molti secoli la più grande chiesa al mondo, in principio aveva un problema: progettato da Arnolfo di Cambio su commissione della signoria di Firenze come tributo religioso e segno concreto della grandeur fiorentina, venne realizzato tra il 1296 e gli inizi del 1400 senza la sua cupola. L’ampiezza della navata e del transetto erano enormi per l’epoca, e realizzare una cupola a tutto sesto tradizionale si era rivelato tecnicamente impossibile: le murature sottostanti del tamburo, pur imponenti, non avrebbero sopportato le spinte verso l’esterno della nuova struttura se costruita secondo i canoni già noti. Urgeva una soluzione, e venne bandito un concorso dall’Opera del Duomo nel 1418 per “chiudere armonicamente l’edificio”: non ci fu un vincitore ufficiale, ma emerse l’intrigante ipotesi di ser Filippo Brunelleschi, che immaginò una innovativa struttura a sesto acuto con impalcature aeree e senza l’ausilio di centine. La cupola venne costruita secondo quest’idea, e Brunelleschi ne seguì i lavori fino alla fine.

Ipotizziamo ora una realtà alternativa e distopica in cui, affidati i lavori a Brunelleschi dopo il concorso, una serie di anime belle dell’intelligencija fiorentina organizza una petizione, sottoscritta da decine di notabili cittadini (tra cui magari il Ghiberti, escluso dalle opere del Duomo per incompetenza), chiedendo pubblicamente l’interruzione dei lavori e dello “scempio” in nome del rispetto del progetto originale arnolfiano e del “bene di Firenze”. I Medici affidano la decisione alle autorità dell’Opera del Duomo, che cautelativamente rigettano l’ipotesi del Brunelleschi: si opta per il ridimensionamento del tamburo e la costruzione di una cupola a tutto sesto di dimensioni più modeste, con tecniche collaudate e filologicamente basata sul progetto originario del XIII secolo e sulla salvaguardia della sua ”integrità artistica”. Se davvero questo fosse accaduto, sarebbe stato effettivamente salvaguardato il bene di Firenze, e del Rinascimento italiano?

Fortunatamente non andò così: nel 1400 l’innovazione era apprezzata come valore, e il lavoro di Brunelleschi in Santa Maria del Fiore fu un successo conclamato e riconosciuto pubblicamente già allora. Oltre che essere un indiscusso capolavoro, ancora oggi resta la più grande cupola in muratura tradizionale mai costruita, ormai perfettamente “integrata” nel porta-innesto costituito dall’impianto arnolfiano, in un unicum mai messo in discussione.

E fortunatamente altri comitati in altre epoche storiche — i rompiballe non esistono da ieri—non hanno impedito la realizzazione di numerosi progetti eccezionali rispetto al contesto storicamente o paesaggisticamente rilevante in cui intervenivano, divenuti poi patrimonio universale: ad esempio a Ortigia (Siracusa) con la realizzazione dello splendido duomo che ha progressivamente inglobato l’antecedente Tempio di Athena. O alla Basilica di San Pietro, che dal periodo paleocristiano ha subìto progressive modifiche, stravolgimenti ed ampliamenti a firma delle archi-star di turno in ogni epoca storica fino al ‘600 e oltre. O a Parigi con la Tour Eiffel o il Centre Georges Pompidou — pure entrambi nati come esito di concorsi — che per tanti benpensanti avrebbero definitivamente snaturato il carattere della città, diventandone invece icone universali. La storia ci ha insegnato ripetutamente, con innumerevoli esempi eccellenti costruiti, che i benpensanti hanno torto.

E invece nell’Italia dei giorni nostri, e nella sua attuale e tristissima diatriba asimmetrica tra Kultur gentista e Zivilization senza argomenti convincenti, assistiamo sempre più spesso a un paradosso: una tutela integrale e — spesso — aprioristica ed intransigente di opere che, se fossero esistiti ai tempi della loro realizzazione gli stessi odierni comitati ufficiali o spontanei di tutela, probabilmente ne sarebbe stata impedita perfino la nascita, in quanto bollate come “irrispettose del contesto e della tradizione” (sic). Mentre quelle stesse opere sono significative proprio perché straordinarie, cioè fuori dall’ordinario anche (e soprattutto) nella loro epoca. Ma questo aspetto fondamentale, che ha reso la storia dell’architettura italiana tra le più influenti al mondo per ricchezza e innovazione, viene rinnegato proprio da chi dovrebbe rappresentarne il tutore, a chiacchiere o in quanto istituzione.

L’area di intervento vista da Google Maps

Tornando a Ferrara, cos’ha il progetto vincitore che non va? Perché ha fatto tanto alterare Sgarbi, solitamente così misurato?

In realtà l’appello sgarbiano che ha convinto il Ministro non scende nel merito delle scelte progettuali di dettaglio: si limita superficialmente ad affermare che “l’intervento soffoca il rapporto dell’edificio con lo spazio aperto della città. E assume lo stesso assurdo significato che avrebbe aggiungere un canto alla Divina Commedia o all’ Orlando Furioso. La seguente raccolta di firme non è contro nessuno, ma per difendere l’integrità, minacciata da una visione utilitaristica, di un monumento che appartiene alla umanità.”

Potremmo chiederci prima di tutto: ma cos’è lo spazio aperto della città? Ferrara, pur ancora cittadina a misura d’uomo, è cresciuta da un po’ intorno al suo nucleo storico ben oltre il cortile di Palazzo Diamanti, e non si può certo dire che il pratone su cui il concorso prevedeva l’ampliamento si affacci sul nulla, o su bucoliche praterie: oltre Via Dosso Dossi ci sono isolati su isolati di altre costruzioni. (A meno che lo spazio aperto della città sia uno “spazio dell’anima”, e in tal caso alzo le mani e ammetto il mio limite non possedendo io strumenti pratici ed oggettivi per valutarne l’ampiezza, o la consistenza. Un limite che evidentemente non appartiene ai convinti firmatari della petizione).

Ma, scendendo più nel concreto, di certo c’è una fondamentale, tangibile differenza tra una architettura e una opera d’arte in senso stretto: quasi sempre (e anche in questo caso) l’architettura ha una funzione concreta, non è immaginata — ad eccezione del monumento funebre, pur esso con una funzione pratica non trascurabile — unicamente come espressione simbolica astratta. Ci si entra dentro, la si percorre, ci si fanno cose (abitare, studiare, rilassarsi, proteggersi dalle intemperie, in questo caso mostrare in un luogo protetto delle opere d’arte), magari differenti nel corso degli anni. Che poi sia anche esteticamente coerente e risolta rispetto al tempo in cui è stata realizzata o in cui mantiene una funzione, è un ulteriore valore aggiunto dell’architettura, ma non è l’unico. Per cui, primo errore grave dell’appello, l’architettura non è minacciata da, bensì  possiede sempre una accezione utilitaristica, in quanto costruita e mantenuta in vita per uno o più scopi, triviali o nobili che siano.

E c’è anche una fondamentale differenza tra una architettura e un’opera letteraria: mentre quest’ultima in genere (ma non sempre) è qualcosa di conclusivo, l’architettura è l’opera aperta per eccellenza, in quanto spazio funzionale e sociale che — se la sua qualità e la sua consistenza lo consentono, ed è così per tutte le grandi architetture — supera con disinvoltura la prova del tempo e i cambiamenti d’uso e di contesto, restando permeabile alle evoluzioni degli uomini e della società.

E poi, sarebbe ora di riconoscere una volta per tutte che ogni opera d’arte e di architettura è stata contemporanea. Le eccellenze che oggi possiamo ammirare come eredità storica dei secoli precedenti furono tra le opere più avanzate della loro epoca, e spesso in contraddizione con ciò che le aveva precedute. Gli antichi romani reinterpretavano gli edifici significativi di epoche precedenti in base alla loro visione del mondo e alle loro tecniche costruttive. In epoca bizantina e paleocristiana, e ancora oltre nel Medioevo, era prassi comune intervenire pesantemente e riutilizzare con altro scopo gli antichi templi pagani. Nel Rinascimento, o nel Barocco e oltre assistiamo a imponenti demolizioni di interi tessuti urbani per far posto al nuovo senso spaziale contemporaneo che riplasmava le città. I resti di epoche precedenti, quando ritenuti degni di essere conservati, venivano ricontestualizzati o posti fianco a fianco con nuove realizzazioni in un regime di pacifica convivenza.

Il pluritrasformato Teatro di Marcello, in un’illustrazione del 1757 di Giovanni Battista Piranesi

Detto questo, con le dovute proporzioni con gli esempi sopra citati, e senza dare giudizi sommari sull’opera di LABICS dal momento che c’era una commissione appositamente designata per farne di argomentati e definitivi, l’intervento vincitore del concorso appare praticamente inoffensivo, entrando in punta di piedi (per materiali, leggerezza ed assenza di caratterizzazione) sul retro di un’opera egregia di Biagio Rossetti, senza minimamente interferire con essa. Forse non sarebbe entrato nella Storia dell’Architettura, ma almeno avrebbe permesso l’ampliamento della Galleria d’Arte Moderna ed il suo funzionamento senza interferire con l’opera di Rossetti — insediandosi sul retro oltre il cortile, nel pratone di cui sopra oggi spazio senza una qualità specifica e pieno di sporcizia, che evidentemente a Sgarbi piace così — ma allo stesso tempo in continuità con lo spazio attuale, completandone i servizi. 

Diciamo anche che lo Sgarbi che si rivolge al ministro via Change.org insieme con un triste seguito di guest-firmatari (tra cui tanti architetti illustri, che dopo aver loro stessi lavorato pesantemente e non sempre felicemente sulla storia – alcuni perfino col beneplacito di Sgarbi, come Mario Botta alla Scala di Milano sotto il Governo Berlusconi – in un gesto ai limiti della scorrettezza deontologica chiedono l’annullamento di un esito di gara a sfavore di colleghi), quello stesso Sgarbi ha avuto in passato fin troppe occasioni di cambiare le regole a suo modo per il meglio dall’interno delle istituzioni, se non per l’Italia per la sua Ferrara. E invece niente, non pervenuto: forse era impegnato a fare altro. O forse tutto questo ha qualcosa a che fare con la sua candidatura a sindaco di Ferrara, o con il fatto che sia stata negata la terza proroga alla Fondazione Cavallini Sgarbi per una sua mostra al Castello Estense, il che sarebbe ancora più squallido, sebbene lo stesso Sgarbi neghi con fermezza.

Il rapporto con il contesto storico nel progetto per l’area ex Campari di Mario Botta, tra i firmatari “eccellenti” dell’appello di Sgarbi. L’immagine è di Enrico Cano

Si diceva che ogni opera, quando è nata, è stata contemporanea. Ma per qualche oscuro motivo – e nonostante in altri contesti storici all’estero e anche in Italia si intervenga con progetti che guardano al futuro in perfetta convivenza con ciò che merita di essere valorizzato e tramandato – in tanti sono convinti che il nostro tempo non sia più capace di produrre nulla di buono, per cui il passato viene congelato e riproposto tal quale al bisogno, una commodity come un’altra staccata dalla vita della città e ben isolata dallo sfondo come con i filtri blur posticci di Instagram. La generalizzazione di questo atteggiamento inutilmente ed esageratamente cautelativo rispetto a qualsiasi intervento contemporaneo sta diffondendo — per mancanza di cultura, responsabilità e anche semplice buon senso rispetto alla serena ed oculata programmazione delle trasformazioni — un approccio a catenaccio, alla conservazione per la conservazione che somiglia in molti casi alla devianza clinica della sindrome da accumulo compulsivo (sul genere “sepolti in casa”), applicata alla tutela tout-court ed alla impossibilità di modifica o intervento persino in beni o parti di beni di valore minore o trascurabile (come il pratone di Palazzo Diamanti), e in cui un innesto contemporaneo ben assestato e argomentato porterebbe se non altro nuova linfa vitale.

Per come la vedo io, tutto questo è un segno di evidente decadenza: l’unica azione ammessa nei riguardi dell’architettura storica secondo questa e altre petizioni sembra essere quella di pura contemplazione – e l’estasi maggiore per le rovine, quando gli oggetti tutelati con tanta veemenza muoiono romanticamente, e definitivamente, sotto gli occhi distrattamente ammirati di turisti del Primo Mondo con panino e bibita dietro alle transenne. L’importante è che non si intervenga. Quasi come in Fantozzi, quando il ragioniere cadeva a terra e a uno spontaneo gesto di aiuto di alcuni colleghi gli altri li redarguivano «Non lo aiutate! Altrimenti è eliminato!».

È così che i benpensanti senza visione e senza progetti hanno vinto anche questa battaglia, imbalsamando un altro pezzo d’Italia: dopotutto aderire in un click a una petizione online costa infinitamente meno del programmare e progettare con serietà e competenza una alternativa. È per questo che tutti noi, da progettisti, dovremmo sforzarci di essere ancora più rigorosi e inattaccabili nel promuovere il contemporaneo, e proporre ipotesi con maggiore qualità, migliori argomentazioni, una più raffinata coerenza spaziale. Dovremmo alzare il livello del dibattito culturale intorno alle trasformazioni delle città, alla salvaguardia vera del patrimonio storico e al suo mantenimento in vita, ma anche intorno alla riqualificazione non solo retorica delle periferie (del tutto ignorate dalla politica attuale e da qualsiasi appello in rete). Collaborare e integrare le competenze per acquisire massa critica, pretendere che la competizione su temi intriganti come quello di Palazzo dei Diamanti sia aperta anche fuori dai confini nazionali, coinvolgere altre eccellenze per portare aria nuova nell’ambiente asfittico delle opere pubbliche italiane. E smontare, brano a brano, con tutti i mezzi a nostra disposizione, la retorica della conservazione fine a se stessa.

Perché se per primi i nostri progetti prestano il fianco a essere boicottati e non sono all’altezza del dibattito, avanti di questo passo, a forza di non intervenire mai e non toccare più niente, il vero problema è che avranno — i benpensanti ma anche tutti noi , dentro e fuori le città storiche — un bel po’ di rovine da contemplare.

Autore

Luca Silenzi è architetto e fondatore di Spacelab, uno studio di progettazione, design e ricerca diretto insieme con Zoè Chantall Monterubbiano, con progetti premiati, esposti e pubblicati in Italia e all’estero. Vive e lavora a Fermo. Ha scritto saggi ed editoriali per DomusClog, Studio, Place_Holder. È tra gli autori della rivista online TheVision. Con Spacelab è impegnato da anni nella ricerca e nella prototipazione di sistemi di industrializzazione e standardizzazione in architettura: la casa unifamiliare modulare M1, presentata alla Milano Design Week nel 2015, è stata selezionata nell’ADI Design Index nel 2016 e candidata al Compasso d’Oro nel 2018.  Spacelab era tra i contributors della XIV Biennale di Architettura di Venezia su invito di Rem Koolhaas con il progetto curatoriale State of Exception.

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