La Dialettica del Kitsch

massa critica | giacomo pala

Direi che su una cosa siamo tutti d’accordo – o almeno, tutti quelli che la bolla di filtraggio ridireziona su questo sito -: quella prodotta da Zaha Hadid Architects è (ormai) un’architettura esageratamente retorica e dipendente dall’applicazione compiaciuta di strumenti digitali (pure brutta, a esser sinceri). Per non parlare dell’irritante ideologia neoliberal di Patrik Schumacher, nuovo frontman dello studio londinese il cui staff, paradossalmente, ha dovuto distanziarsi pubblicamente dalle sue più recenti prese di posizione. Ora, non è questo il tema del bel post di Giacomo Pala, ma credo sia scorretto separare la deriva parametrica presa negli ultimi anni da ZHA dal più ampio “progetto culturale” del suo starchitect tedesco. Tale deriva, era già stata problematizzata da Valerio Paolo Mosco in un articolo pubblicato ad aprile su questo sito, ed è proprio da tale articolo che riparte questo post, raccogliendo, criticando e rilanciandone le tesi dopo un’attenta opera analitica, nel tentativo di offrire un nuovo punto di vista sulle questioni trattate. Le argomentazioni di Giacomo sono preziose e meritevoli di attenzione, dato che contestualizzano in maniera efficace uno dei frammenti più rilevanti e dibattuti della storia dell’architettura recente, e a suo parere, della contemporaneità. DTF

pollock-and-soup-tureenLouise Lawler, Pollock and Soup Tureen, 1984

In un testo pubblicato su questo stesso sito, Valerio Paolo Mosco ha provocatoriamente definito l’opera di Zaha Hadid, e una genericamente definita “architettura del processo”, come fenomeno Kitsch. Kitsch nel senso che questa architettura mostrerebbe un’“attrazione per l’eccesso ostentato in cui l’effetto prevale sulla causa”. Al di là di alcune questioni storiografiche (come il ruolo di Peter Eisenman, Hani Rashid e Greg Lynn) riguardanti lo sviluppo di questa architettura la cui discussione va inevitabilmente rimandata a un’altra sede, l’argomento sviluppato da Mosco in termini di “gusto” nei confronti di un’architettura che si dice “scientifica” è acutamente provocatorio e intelligente. Tuttavia, ai fini della discussione, può essere interessante porre alcune questioni critiche. Per esempio, quando si afferma che l’“architettura del processo” mette in relazione l’“Art Nouveau con il Costruttivismo” e che – conseguentemente – questa architettura appare oggi come l’Art Nouveau dopo la prima guerra mondiale, si opera un gioco critico intelligente ed efficace, ma che lascia il tempo che trova; un po’ come quando Heinrich Wölfflin metteva una affianco all’atra immagini diverse al fine di costruire narrazioni a dir poco “strumentali”. Infatti, il paragone con l’Art Nouveau è tanto fittizio quanto il riferimento al costruttivismo nell’opera di Hadid è ovvio. Un paragone che crolla nel momento stesso in cui si considerano gli atteggiamenti culturali e ideologici (i sistemi di razionalità interna ai singoli discorsi culturali) profondamente diversi tra queste architetture.

Proposta immodesta: essendo ormai passato un tempo sufficiente dal decesso di Zaha Hadid per parlare del suo lavoro con “distacco emotivo”, sarà tentato l’utilizzo del testo di Mosco come scusa per aprire uno spazio di discussione non solo sull’“architettura del processo” (che, riferendosi a Hadid, verrà limitata al parametricismo), ma anche (e soprattutto), sul metodo critico tramite cui analizzare e valutare l’attualità.

farnsworth_house_by_mies_van_der_rohe_-_exterior-6_tLudwig Mies van der Rohe, Farnsworth House, 1951

Partendo dall’equazione usata da Mosco, “it’s economy, stupid!” = “it’s the process, stupid!”, si può tentare di cambiare il punto di vista sull’opera di Zaha Hadid. Questa metaforica equazione mette al centro del problema la relazione tra “economia” e architettura senza considerare, però, il contesto culturale in cui l’architettura di Hadid nasce e si sviluppa. Questa architettura è infatti un frammento tra i frammenti dell’attuale crollo meta-culturale dell’architettura contemporanea. Uno stato che deriva dall’opaca transizione tra un mai definito “moderno” e un non precisato “post-moderno” dovuta alla legittima frustrazione nei confronti di quelli che Giulio Carlo Argan ha chiamato “ideologismi” del razionalismo. Il modernismo architettonico era infatti accompagnato da una campagna in favore della standardizzazione come metodo, funzionalismo come programma e “avanguardia” come verità. “Architettura o rivoluzione”: con queste parole Le Corbusier avvertiva il mondo. L’architettura moderna sembra così aver preso parte alla standardizzazione e razionalizzazione del mondo moderno. Conseguentemente, il postmoderno nasce come critica ai fallimenti del logos della modernità: sono tutti d’accordo su cosa criticare, molto meno su che cosa fare. In qualche modo, il nostro presente ancora deriva dal vuoto lasciato dalla crisi dovuta alle guerre mondiali, dal fallimento delle rivoluzioni trasformatesi in regimi totalitari, dal potere delle corporation e dalla scoperta che il modernismo stesso ha contribuito al successo di queste forze. Caso emblematico: la raffinata architettura che Mies prova a vendere al Führer del terzo Reich e che, fallendo, diventa espressione del capitalismo americano. Così, dagli anni sessanta, il mondo dell’architettura ha cominciato a considerare lo zelo rivoluzionario dell’architettura moderna come un pregiudizio o – al limite – come una metafora formale. Da Complessità e contraddizioni in architettura, e dalla distruzione di Pruitt-Igoe, sino agli anni novanta, la storia è conosciuta: l’architettura ha vissuto una costante e necessaria ridefinizione del suo contenuto culturale e formale.

Il lavoro di Zaha Hadid, che, come già notato da Ferrando nell’introduzione al testo di Mosco, vive due fasi distinte, fa parte di questa serie di esperienze. I suoi primi progetti partecipano infatti alla formulazione di un discorso culturale che da un lato riattualizza le forme dell’architettura moderna nella cultura post-modernista (dal costruttivismo russo, all’espressionismo austro-tedesco, passando per l’astrattismo di Kandinsky) e, dall’altro, espande il vocabolario formale architettonico in uso sino ad allora. Etichettare questa architettura come Kitsch, come “forma di sublime al ribasso”, come “un romanticismo dozzinale che monumentalizza il superficiale”, è una evidente generalizzazione e banalizzazione. Infatti, questa esperienza si può annoverare tra quei tentativi di critica a un progetto “assolutista” che, come fa efficacemente Colin Rowe in Collage City, tentano il ripensamento della città e dell’architettura come collage/assemblaggio tra diversità, figure e realtà complesse: un modo per uscire dal pensiero omogeneizzante e universalizzante del modernismo. Retrospettivamente, è tuttavia evidente che questa tendenza abbia generato più di qualche problema. Negli ultimi anni, infatti, ciò che era il postmoderno e che oggi chiamiamo “architettura contemporanea”, si è trasformato nel paradigma che produce quelle che Charles Jencks ha definito “icone globali”: edifici “spettacolari” prodotti in uno stato di piaggeria nei confronti dei centri del capitale finanziario e che popolano indifferenziatamente le città e i coffee table books di architettura. È all’interno di questo discorso che entra in gioco il lavoro “tardo” di Hadid Architects (non che Patrik Schumacher abbia mostrato alcuna intenzione di smettere) e il “parametricismo”. Al fine di criticare – obiettivo più che condivisibile – questa architettura, è necessario però prima riconoscere a questa poetica una legittimità culturale. Questa esperienza architettonica è stata quella che forse più di tutte ha tentato il superamento del postmodernismo. Anche se questo tentativo è un fatto di per sé né positivo né negativo, bisogna prendere atto di questo sforzo nelle sue diverse forme. Da un punto di vista formale: non vi è più frammentazione o composizione di parti, ma quella che Lynn potrebbe chiamare “unità differenziata”. Da un punto di vista materialista: questa architettura non è più standardizzata, ma è costruita grazie allo sfruttamento di nuove forme produttive. Dal punto di vista “tecnico”: l’architettura del processo ha tentato lo sviluppo di un’epistemologia alternativa per l’architettura, sia in termini di composizione, che di costruzione.

db3016-pic06-1100x1100_tLudwig Mies van der Rohe, Barcelona Couch, 1930

Se oggi è evidente che questo superamento è fallito, non è altresì vero che questa architettura, pur non essendo fortunatamente maggioritaria, sia sparita. Pur avendo cambiato le proprie forme, esistono diverse continuità tra alcune esperienze contemporanee e l’architettura degli “anni di Bill Clinton”, che a un occhio attento non possono sfuggire. Tuttavia, oggi sappiamo benissimo, a quasi trent’anni dal 1990, che il mondo dell’era dell’informazione è molto più complesso e contradditorio di quello che sembrava nel clima di ottimismo per l’avvento delle tecnologie informatiche. È per questo semplice motivo che tale microcosmo non può essere liquidato con una categorizzazione booleana: vero/falso, Avanguardia/Kitsch. Semmai, questo mondo va criticato in modo più profondo, nel senso che anche oggi, dopo la crisi economica, dopo la fine del “sogno” neoliberista (non che si scorga un nuovo “sol dell’avvenire”), il “parametricismo” tenta sempre più la costruzione di un meta-racconto di stampo universalista, non rendendosi conto della frammentarietà del mondo contemporaneo.

Ovvia conseguenza dell’informatizzazione della cultura: istanze diverse e moltitudini di microcosmi convivono nel simulacro dell’informazione. Dato questo horror pleni del mondo dell’informazione contemporanea, la critica al parametricismo di Patrik Schumacher va svolta nel senso che quest’ultimo sembra essere un manierismo; che, in quanto tale, si rifà a una storia recente dell’architettura (una tra le tante convenzioni della contemporaneità) aggiungendo continue (e tediose) variazioni. Un’architettura, infine, che (ormai insopportabilmente) si autoproclama nuovo paradigma universale dell’architettura poiché, secondo il suo ideologo, può “sfruttare appieno la rivoluzione computazionale che guida la civiltà contemporanea.”

Tuttavia, l’idea di opporsi dialetticamente a questo tipo di retorica, contrapponendo una categoria a un’altra (come suggerisce il fatto che, secondo Mosco, il “kitsch non solo ha diritto di asilo, ma è necessario”, avendo “una sua funzione ben precisa per comprendere le oscillazioni del gusto”) è la strategia che più si allontana dall’obiettivo di essere efficace. Questa operazione non fa altro che partecipare allo sviluppo di esperienze che qualcuno potrebbe definire come Kitsch da un simile punto di vista, seppure antitetico (un vettore critico di uguale intensità, stessa direzione, ma verso opposto). Ciò è evidente nei recenti sviluppi del mondo dell’architettura. Un mondo che vive nella polverizzazione dei suoi contenuti, con centri di “potere” culturale che vivono in un relativismo assoluto: “ognuno per sé, Dio con tutti.” Così, se frequentiamo solo determinati istituti di ricerca invece che altri, se visitiamo solo KooZA/rch o solo suckerPUNCH (tra i tanti siti possibili), se leggiamo solo Pier Vittorio Aureli o solo Jeffrey Kipnis, conosceremo solo una cultura e non le altre. Seguito inaspettato della “rivoluzione digitale”: ognuno di noi può affermare che i “sicuramente migliori” di qualcosa sarebbero d’accordo con noi o le nostre citazioni preferite. In questo senso, l’unica profezia degli albori dell’era dell’informatica che sembra essersi avverata è una nota pubblicità di una famosa compagnia telefonica che recitava: “il mondo è tutto intorno a te”. Un mondo che è intorno a te e che è da te formato in uno stato di simultaneo ed egocentrico legame tra individualizzazione dell’esperienza ed etero-determinazione. È all’interno di questo contesto culturale che un progetto come il “parametricismo” appare ingenuamente conservatore, e una critica idealista risulta sterilmente provocatoria.

Infine, si può tentare una presuntuosa proposta: oggi, la critica e la teoria, al fine di essere efficaci, devono alzare il livello di complessità interpretativa e applicativa, definendo progetti culturali che siano allo stesso tempo critici e propositivi. Per questo, di fronte alla complessità e fugacità dell’attualità, la critica, invece che usare categorie che idealizzano realtà opponendo immaginate oggettività a presunte verità, deve programmaticamente assumere il punto di vista di Vertumno, il dio della mitologia etrusco/romana descritto da Denis Diderot come la divinità cui “niente è più dissimile di se stesso”.

Autore
Giacomo Pala è dottor­ando e visiting lect­urer presso la Facol­tà di Architettura de­ll’Università di Inns­bruck. Pala si laurea con pieni voti alla facoltà di architettura di Genova nel 2014, dove ha collaborato ad alcuni progetti di ricerca. Oltre ad eperienze professionali con alcuni studi, tra cui i Coop Himmelb(l)au a Vienna, Pala ha partecipato alla fondazione dell’associazione culturale Burrasca nel 2013, per cui ha co-editato alcuni numeri della rivista omonima. Nel 2014 è vincitore della prima edizione del DiaStizein Prize.

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