La terza incomoda

massa critica | davide tommaso ferrando

La recente pubblicazione dei risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale per i settori della progettazione e della storia ha fatto emergere una questione molto importante, legata all’organizzazione disciplinare dell’università italiana – sulla quale, però, non mi pare ci si sia ancora soffermati.

Il fatto di dare per scontato che chi dimostra un interesse prevalentemente teorico/critico per l’architettura moderna e contemporanea (diciamo dal Novecento in poi) abbia, come unici settori disciplinari di riferimento, la progettazione e la storia, produce infatti una specie di “corto circuito” accademico che fa sì che ottimi profili come quelli di Marco Brizzi, Luca Molinari (che però è stato respinto soltanto dalla commissione storica), Valerio Paolo Mosco, Manuel Orazi, Luka Skansi e Roberto Zancan (e altri), risultino di fatto non adeguati a concorrere a una cattedra da professore associato, indipendentemente dal numero e dalla qualità dei riconoscimenti ottenuti durante la loro carriera.

Pur consapevole della grossolanità di queste riflessioni, che non tengono volontariamente conto delle diverse dinamiche che hanno concorso alla formazione dei giudizi finali delle commissioni, ci tengo a sottolineare come, in questi casi, vi siano due ragionamenti ricorrenti alla base delle mancate abilitazioni dei candidati: troppo poco progettuale il percorso di chi ha paretcipato al bando per il settore Progettazione Architettonica; troppo poco storico lo sguardo di chi si è rivolto al settore Restauro e Storia dell’Architettura. Fino a questo momento, la validità di tali giudizi è stata messa in discussione (anche dal sottoscritto) a partire da osservazioni sulla presunta falsa coscienza dei commissari. Ma se i commissari avessero ragione?

Si suppone che l’organizzazione degli insegnamenti universitari debba rispecchiare, in un modo o nell’altro, l’organizzazione dei saperi cui fanno riferimento. In questo senso, ho la netta sensazione che l’attuale definizione dei settori “storia” e “progettazione” non riesca a restituire in maniera adeguata la forma delle rispettive relazioni discorsive che si instaurano all’interno della disciplina architettonica. Quello che viene ufficialmente presentato come un tête à tête, in sostanza, mi pare sia in realtà un ménage à trois: un rapporto di gruppo che coinvolge contemporaneamente storia, progettazione e teoria – la terza incomoda.

Quello della concessione di un certo grado di indipendenza alla teoria dell’architettura, in termini prettamente accademici, è un tema cui ho cominciato a interessarmi circa due anni fa, quando iniziai a impostare con un po’ di amici* – in maniera del tutto autonoma, e purtroppo senza riuscire a concluderla – una piccola ricerca sullo stato dell’insegnamento della teoria e della critica d’architettura nelle università europee. L’esito di questo acerbo sforzo riepilogativo, che alla luce dei risultati delle ASN andrebbe probabilmente ripreso e aggiornato, fu piuttosto preoccupante, per quanto riguarda il caso italiano: con la sola eccezione del Politecnico di Milano, infatti, l’insegnamento della teoria risultava relegato in una posizione clamorosamente minoritaria all’interno dei programmi di studio delle nostre università (quando non era proprio assente, come nel caso della allora II Facoltà di Architettura di Torino). Della critica, poi, non si scorgeva nemmeno l’ombra.

L’ipotesi su cui si basava questa iniziativa interrotta è che la mancanza di formazione nei campi della teoria e della critica crei una sorta di deficit culturale nei nostri studenti, che rende gli architetti italiani più deboli rispetto ai colleghi europei: sia dal punto di vista progettuale, sia dal punto di vista concettuale. Non si può cambiare il modo in cui si progetta se non si cambia, prima di tutto, il modo in cui l’architettura è pensata, e il pensiero architettonico si struttura quasi sempre durante il periodo universitario (quanti architetti continuano a studiare, una volta laureati?). Da questo punto di vista, l’Italia risultava vertiginosamente disallineata rispetto alla situazione europea – e ve lo dice uno che, a Madrid, ha frequentato un master in teoria e critica dell’architettura (con seminari, taller e persino un laboratorio di critica!).

Storia, progettazione e teoria sono i tre pilastri su cui si costruisce il discorso architettonico. Tali termini non definiscono ambiti disciplinari indipendenti, ma porzioni di sapere che si intersecano e modificano reciprocamente. Senza teoria non c’è né progetto né storia, senza storia non c’è né progetto né teoria, senza progetto non c’è né teoria né storia. Riconoscere l’equipollenza e interdipendenza di questi tre ambiti mi pare di fondamentale importanza, se si vuole (e direi che si dovrebbe) riconsiderare il modo in cui l’architettura è insegnata nelle nostre università – a partire dall’osservazione che, delle tre, la teoria appare oggi la più svantaggiata.

In un universo parallelo, Brizzi, Molinari, Mosco, Orazi, Skansi e Zancan (eccetera) sarebbero degli utilissimi professori associati afferenti al settore disciplinare “teoria dell’architettura”: campo che conoscono profondamente e al cui sviluppo hanno contribuito direttamente per mezzo delle loro numerose attività accademiche ed extra-accademiche. Attività che, però, il nostro sistema universitario non è oggettivamente in grado di valorizzare, a causa di una sua errata organizzazione interna (la stessa organizzazione che fa sì che la teoria non venga insegnata, se non sporadicamente).

Credo che l’architettura italiana non possa che trarre beneficio da una riforma universitaria volta a conferire un posto di maggior rilievo alla teoria dell’architettura: non solo perché si scioglierebbero molti dei nodi problematici che l’ASN ha portato a galla, ma soprattutto perché una simile operazione avvicinerebbe nuovamente le università italiane agli standard internazionali. Se poi, en passant, si riuscisse a compiere un lavoro simile anche con la critica, il cui statuto disciplinare appare oggi ancora più misterioso (nonostante la sua evidente utilità, in Italia la critica non è insegnata da nessuna parte, per cui chi vuole occuparsene deve farlo da autodidatta, o andare all’estero), faremmo proprio Bingo!

Davide Tommaso Ferrando

(* gli amici sono: Grazia Carioscia, Michele Deregibus, Amanda Monzani e Gabriele Scotti)

Related Posts

Facebooktwittergoogle_pluspinteresttumblr


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

italian-theories

Related Posts

Facebooktwittergoogle_pluspinteresttumblr