materiali

[omissis] | davide tommaso ferrando

Tu conosci l’armonia che deriva dall’uso del materiale al massimo della sua potenzialità.

Quando si ha a che fare con i mattoni o si progetta qualcosa in mattoni, si deve chiedere al mattone cosa vuole o cosa sa fare. Se si chiede al mattone cosa vuole, risponderà: “Vorrei un arco”. A questo punto tu dirai: “Ma gli archi sono difficili da costruire e sono costosi. Penso che per questa apertura vada altrettanto bene usare il cemento”. Ma il mattone ribatterà: “Oh, lo so, so che hai ragione, ma poiché mi chiedi cosa mi piacerebbe… vorrei un arco”. A questo punto gli domanderai: “Ma perché, insomma, ti ostini così?”. Al che, il mattone controbatterà: “Posso fare solo una piccola osservazione? Ti rendi conto che stai parlando di un essere, e che un essere in mattoni è un arco?”. […]

Se lavori con il mattone, non usarlo come un materiale di ripiego o perché è più economico. No, devi innalzarlo alla gloria, perché questo è quanto gli spetta. Se lavori con il calcestruzzo, devi conoscere l’ordine della sua natura e ciò che il calcestruzzo si sforza di diventare. In realtà, il calcestruzzo vorrebbe essere granito, ma non ci riesce. L’armatura è opera di un prodigioso, anonimo operaio, che rivela la forza di questo materiale, che si ritiene simile a una pietra modellata; è un risultato dello spirito. L’acciaio vuole comunicare di essere forte nonostante possa avere le dimensioni di un insetto, e un ponte di pietra vuole dire di essere stato costruito massiccio come un elefante; ma tu conosci la bellezza di entrambi, l’armonia che deriva dall’uso del materiale al massimo della sua potenzialità. Se rivesti di pietra un muro, senti di aver fatto qualcosa di meschino, e questo vale anche per il migliore di noi.

LOUIS KAHN, Gli inizi, in MARIA BONAITI (a cura di), Architettura è. Louis Kahn, gli scritti, Electa, Milano 2005, p. 159-60.

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Ogni materiale possiede un linguaggio formale che gli appartiene.

Che cosa vale di più? Un chilo di pietra o un chilo d’oro? Sembra una domanda ridicola. Soltanto al commerciante, però. L’artista risponderà: per me tutti i materiali sono ugualmente preziosi. […]

L’artista ha una sola ambizione: dominare il materiale in modo che la sua opera risulti indipendente dal valore del materiale di cui è fatta. I nostri architetti però non hanno questa ambizione. Per loro un metro quadrato di muro fatto in granito ha più valore di uno intonacato. Il granito però non ha alcun valore di per sé. […] Eppure vi sono persone che lo considerano il materiale più pregiato. Queste persone dicono materiale e intendono lavoro. […]

Viviamo in un’epoca che dà più importanza alla quantità del lavoro. Perché questa è più facile da controllare, colpisce subito tutti nella sua evidenza e non richiede uno sguardo esperto o altre cognizioni particolari. Su quel punto non ci si può sbagliare. Un determinato numero di operai ha lavorato a una certa cosa per un determinato numero di ore e per un determinato compenso. Chiunque può eseguire il calcolo. E si vuole che chiunque sia in grado di rendersi conto facilmente del valore delle cose che lo circondano. Altrimenti quelle cose che scopo avrebbero? Quindi si tengono in maggior considerazione quei materiali che richiedono più tempo per la lavorazione. […]

Ogni tempo di lavorazione però […] costa denaro. E se il denaro non c’è? Allora si comincia a simulare il tempo di lavorazione, si imita il materiale. […]

Nel corso degli ultimi decenni il principio dell’imitazione ha dominato completamente l’edilizia. […] Soltanto di fronte al cemento, che è una conquista del nostro secolo, si è rimasti completamente disarmati. Siccome il cemento di per sé è un materiale stupendo, ci si attiene per valorizzarlo a un unico principio, quel principio che viene riproposto ogni volta che si inizia ad applicare un nuovo materiale: con questo che cosa si potrebbe imitare? Lo si è usato come surrogato della pietra. E, poiché il cemento è straordinariamente economico, se ne è abusato in ogni modo, sempre nel tipico stile da parvenus. […]

Ogni materiale possiede un linguaggio formale che gli appartiene e nessun materiale può avocare a sé le forme che corrispondono a un altro materiale. Perché le forme si sono sviluppate a partire dalla possibilità di applicazione e dal processo costruttivo propri di ogni singolo materiale, si sono sviluppate con il materiale e attraverso il materiale. Nessun materiale consente una intromissione nel proprio repertorio di forme. Chi osa, ciononostante, una tale intromissione, viene bollato dal mondo come falsario. L’arte non ha nulla a che fare con la falsificazione, con la menzogna. Le sue vie sono piene di spine, ma pure.

ADOLF LOOS, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 2011, pp. 73-77, 80-81.

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Una poetica dei materiali che afferma la relazione necessaria tra forma e contenuto.

Le opere degli artisti minimalisti, in generale, rifiutavano, come l’installazione di Paolini [Lo spazio, 1965],  i termini “ordine” e “struttura” riferiti a relazioni superiori e generiche. Così le loro sculture non erano condizionate da leggi generali né da un ipotetico ordine cosmico, ma ciò che acquisiva risalto era l’ordine semplice degli oggetti disposti di fronte allo spettatore, gli uni accanto agli altri. […] Per l’artista minimalista, l’arte deve limitarsi ai fatti oggettivi e quindi la prima cosa che lo preoccupa è la compatibilità e la coerenza tra la struttura dell’oggetto e la natura dei materiali che lo compongono.

[…]

Le incursioni degli artisti minimalisti nel campo dell’architettura sono ugualmente caratterizzate da questi principi, e come conseguenza diretta della loro applicazione prendono forma i due mezzi più comuni dell’architettura minimalista: la creazione dello spazio mediante la ripetizione di unità equivalenti e una poetica dei materiali che afferma la relazione necessaria tra forma e contenuto.

Principi questi che, d’altro canto, erano già stati i pilastri fondamentali dell’architettura americana di Mies van der Rohe.

È sotto questo profilo che, senza perdere di vista il retaggio del maestro, forse si possono intendere molte delle costruzioni che gli architetti, autodenominatisi minimalisti, hanno realizzato nel corso dell’ultimo decennio. Si tratta di costruzioni astratte e, altresì, caratterizzate da una ricerca di coerenza tra le strutture formali e i materiali che le compongono, e dall’abbandono dei mezzi metaforici a favore di un’elementarità nella definizione formale esterna degli oggetti che, in molti casi, va legato a una configurazione ricorrente dell’edificio a forma di scatola: la scatola come forma ideale per contenere un volume, la scatola come recinto astratto, la scatola come contenitore neutro, la scatola come oggetto muto… la scatola come contegno silenzioso.

LUIS M. MANSILLA, EMILIO TUÑON, Lo sguardo e l’azione, in “Circo”, 58, 1998 e in Mansilla + Tunon Arquitectos. Dal 1992, Electa, Milano 2007, p. 260.

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Un edificio che “sappia” di calcestruzzo in ogni sua parte.

Mi piacerebbe molto realizzare un vero edificio d’acciaio così come un edificio di calcestruzzo e penso che, da questo punto di vista, il Milwaukee War Memorial stia procedendo bene, perfino meglio di quanto mi aspettassi. […] E penso che anche il terminal della TWA, in quanto costruzione in calcestruzzo, avrà quella specie di unità complessiva tipica della colata fluida di cemento. Ho grandi aspettative per questo. Ora vedo la questione con molta più chiarezza. Progettiamo in calcestruzzo il miglior edificio possibile per lo scopo a cui è destinato, ma che sia un edificio che “sappia” di calcestruzzo in ogni sua parte. Disegniamo anche un edificio in acciaio che in ogni parte e in ogni giuntura “sappia” d’acciaio. Oggi sono assolutamente convinto del fatto che un edificio debba essere un tutto unico, debba avere un senso di unità sia dal punto di vista filosofico, che della forma, che della destinazione d’uso. Un edificio deve essere una cosa sola. Non può contenere in sé molte idee, deve averne una sola. Consideriamo il Guggenheim di Wright, che sembra proprio destinato ad essere una grande opera: è una costruzione fatta interamente di cemento. Certo ha le finestre, ma non si vedono. Ora, forse non è necessario arrivare fino a quel punto. Però quello è un esempio di vera costruzione di calcestruzzo, dove non c’è altro che calcestruzzo. Stiamo anche realizzando un palazzo tutto di vetro, per i Bell Telephone Laboratories. La struttura è di calcestruzzo, ma è tutto rivestito di vetro. L’idea del vetro e il tipo di copertura sono legati alla forma della pianta, alla funzione dell’edificio e all’insieme.

EERO SAARINEN, Intervista concessa a John Peter, 1955, 1958, in «Casabella», n° 800, aprile, 2011, pp. 11-14.

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Quando inizio, non penso alla forma: penso alla maniera giusta di usare i materiali. Poi accetto il risultato.

Davanti ad ogni materiale quello che bisogna scoprire è come usarlo nella maniera appropriata. La forma non c’entra. Quello che faccio io, quello da cui si ritiene discenda il carattere della mia architettura, andrebbe definito semplicemente approccio strutturale. Quando inizio, non penso alla forma: penso alla maniera giusta di usare i materiali. Poi accetto il risultato. Quando lavoro, le idee grandiose le lascio per aria e non voglio che scendano giù e in tante occasioni resto sorpreso da ciò che viene fuori. Io raccolgo i dati. Tutti i dati, tutti quelli che posso. Li studio e poi agisco di conseguenza.

Ci si stupisce del fatto che ho utilizzato materiali da costruzione diversi, ma per me questo è assolutamente normale. Si pensi a un tetto piano e al modo di sorreggerlo: non importa se lo si fa con l’acciaio o il cemento. Quasi tutte le cattedrali risponono al medesimo principio strutturale: cosa c’è che non va? E poi si possono fare delle modifiche e senza bisogno di copiare si può usare il medesimo principio strutturale. Questa, di fatto, era la mia idea quando ho cominciato a lavorare: volevo mettere a punto soluzioni strutturali nuove che potessero essere usate da chiunque. Non cercavo soluzioni individuali ma buone soluzioni strutturali e non mi offendo se qualcuno le usa.

[Per quanto riguarda i disegni per i grattacieli in vetro] si tratta di un problema diverso. In quei casi mi interessava il vetro e cosa si può fare con una costruzione di vetro. Volevo evitare riflessi abbaglianti o una facciata spenta. Perciò ho piegato quelle grandi lastre perché l’edificio avesse il carattere di un cristallo. Non era assolutamente una soluzione sterile. Poi, però, ho pensato che forse avrei potuto ottenere un risultato molto più ricco se avessi reso la costruzione interamente curva – ma erno semplicemente degli studi sul vetro. Certo, avevo in mente un edificio, ma quelli non erano che studi sul vetro.

Quando ho impiegato l’alluminio mi sono avvalso di un materiale estruso. La prima volta lo abbiamo provato per i telai delle finestre. Poi li abbiamo appesi al tetto di 860 Lake Shore Drive per vedere come si leggeva. Le assicuro che la semplice trave a doppio T funzionava molto meglio. Per questo abbiamo usato la struttura con le travi a doppio T anche in alluminio – si legge meglio ed è molto più chiaro.

LUDWIG MIES VAN DER ROHE, Intervista concessa a John Peter, 1955, 1964, in «Casabella», n° 800, aprile, 2011, pp. 86-107.

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La natura delle cose si tradisce più facilmente sotto le vessazioni dell’arte che di sua spontanea volontà.

Una natura morta di David Bailly, opera esemplare dipinta a Leida verso la metà del [XVII] secolo, fornisce una testimonianza straordinaria della simbiosi fra artista e tecniche artigiane. Un giovane artista […] siede accanto a un tavolo coperto da un gran numero di oggetti. È un vero e proprio catalogo di materiali prodotti dalla natura e lavorati dall’uomo: legno, carta, vetro, metalli, pietra, gesso, argilla, osso, pelle, terraglia, perle, petali, acqua, fumo e colore. Sono soprattutto materiali lavorati in modo da rivelare o, con le parole di Bacone, da “tradire” la loro natura: il legno è modellato, la carta arricciata, la pietra scolpita, le perle levigate e infilate in una collana, la stogga è drappeggiata, la pelle trattata in modo da diventare la lucida rilegatura di un libro.

Queste forme lavorate soddisfano le ambizioni baconiane. Esse costringono e modellano la natura così da rivelarla. È questa per Bacone una definizione efficace di arte e di tecnica:

La natura delle cose si tradisce più facilmente sotto le vessazioni dell’arte che di sua spontanea volontà.

La concezione baconiana dell’arte è riduttiva, si potrebbe addirittura dire utilitaristica. Ma fa dell’arte qualcosa di essenziale al fine di conoscere il mondo. L’arte non è semplice imitazione della natura, né puro gioco di fantasia: essa è piuttosto la technē o tecnica artistica, che ci consente di afferrare la natura mettendola alle strette.

Con i suoi strumenti sottili ma efficaci, l’arte può condurre a una nuova conoscenza del mondo.

SVETLANA ALPERS, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 (Chicago, 1983), pp. 176-177.

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