Yes No More

massa critica | davide tommaso ferrando

Un No deve salire dal profondo e spaventare quelli del Sì. I quali si chiederanno che cosa non viene apprezzato nel loro ottimismo. [1]

È vero che il presente, fra tutti i piani del tempo, è quello che risulta più sfuggente alla nostra osservazione, e che lo storico della contemporaneità è costretto a lavorare con visuali condizionate da corte distanze – anzi, a costruirsi egli stesso distanze artificiali che gli permettano di rappresentare, seppur parzialmente, i fenomeni che lo circondano per renderli finalmente visibili. Ma è altrettanto vero che qualsiasi azione progettuale, per potersi concretizzare, necessita di un momento preliminare di comprensione della realtà in cui essa intende depositarsi – momento intimamente legato all’esistenza di (almeno) una rappresentazione previa dello status quo – nonché di un telos, ovvero di uno scopo ultimo che configuri il contenuto dell’azione stessa, permettendole così di acquisire una (e una sola) forma, espressione materica del fine da essa perseguito. Perché ci sia progetto, in altre parole, è necessario conoscere la realtà, entrare in relazione con essa e, infine, modificarla nell’ottica del raggiungimento di un determinato obiettivo.

Dei sopraccitati momenti che scandiscono l’iter dell’atto progettuale (conoscenza, relazione e trasformazione della realtà), i discorsi sull’architettura sembrano oggi avere la tendenza a prediligere, in modo alquanto significativo, il primo e l’ultimo a scapito del secondo. Ne è prova, da un lato, la frequente incursione di un sempre maggior numero di campi del sapere all’interno della disciplina architettonica (valgano come unico esempio gli studi sulla termodinamica di Iñaki Abalos), che ha prodotto un positivo – seppur non sempre controllato – aumento dei piani della realtà con cui l’architettura, attraverso il progetto, riesce a entrare in contatto; e, dall’altro, il continuo affinamento delle tecniche di produzione e rappresentazione dell’architettura, grazie al quale i progettisti, in linea di massima, possono oggi disegnare e (quindi) realizzare praticamente qualsiasi cosa. La centralità che le due fasi di analisi e formalizzazione rivestono oggi all’interno del processo progettuale non è, però, priva di effetti collaterali, dato che il rischio di far coincidere il valore architettonico con la possibilità di gestire il maggior numero di dati attraverso il minor numero possible di segni (l’architettura come puro diagramma), o di generare combinazioni formali “originali” [2] ma forzate (l’architettura come pura immagine), è infatti sempre alle porte – come testimoniato da buona parte della produzione architettonica attuale.

Uno dei più lucidi interpreti di tale tensione bi-polare è senza dubbio il danese Bjarke Ingels, le cui proposte progettuali giocano spesso e volentieri al tira e molla tra i due termini diagramma/programma e immagine/icona – seppur con una certa tendenza a prediligere il secondo termine, laddove i suoi lavori si leghino alla concretizzazione di consistenti interessi economici [3]. In un recente libro-catalogo delle principali opere del suo studio [4], Ingels costruisce una tanto breve quanto acrobatica teorizzazione del suo metodo progettuale: una excusatio non petita con la pretesa, in due colonne e mezzo di testo, di smontare (almeno) cent’anni di pensiero occidentale sull’architettura. La “teoria evolutiva” di Ingels è di una chiarezza esemplare, come la maggior parte dei suoi progetti: se il progresso dell’architettura è stato caratterizzato, almeno fino ai giorni nostri, da una «edipica catena in cui ogni generazione dice l’opposto della precedente» – catena paradigmaticamente rappresentata dalla sequenza di slogan Less is more (Mies van der Rohe), Less is a bore (Robert Venturi), I’m a whore (Philip Johnson) e More is more (Rem Koolhaas) –, piuttosto che continuare ad alimentare tale frustrante tradizione (frustrante perché «se fai una cosa solo per opporti a quel che fa un altro, sei pur sempre un seguace») prendendone parte, l’autore propone di invertire le regole del gioco, e di fare «dell’accondiscendenza un programma radicale». Appoggiandosi a una versione paradossale dell’evoluzionismo darwiniano, opportunisticamente riletto attraverso i meccanismi oclocratici del giurato popolare («noi proponiamo di lasciare che siano le forze sociali, i molteplici interessi individuali, a decidere quale delle nostre idee deve sopravvivere»), Ingels teorizza l’inutilità di qualsiasi presa di posizione, in favore di un’architettura accogliente, «che permette di dire sì a tutti gli aspetti della vita umana»: Yes is More.

Dalla lettura facile e divertente, il breve testo di Ingels si presenta come un collage arbitrario e mal riuscito delle stesse teorie alle quali il danese afferma di opporsi, nonché di alcuni grossolani misunderstandings. È infatti eclatante, in primo luogo, come l’accostamento all’evoluzionismo darwiniano da egli proposto risulti tanto superficiale quanto ingiustificato: non c’è infatti bisogno di scomodare Alvar Aalto, che negli anni Trenta aveva già compiutamente formulato una teoria dell’architettura come processo evolutivo complesso [5], per notare l’ingenuità con cui Ingels confonde l’idea di “adattamento”, che implica il cambiamento involontario di un organismo, i cui effetti si manifestano indirettamente sulla sopravvivenza di una data specie, con l’idea di “progetto”, che implica il cambiamento volontario di una situazione, i cui effetti si manifestano direttamente sulla felicità di un’intera società. Simili considerazioni, ad esempio, possono essere fatte in merito al non dichiarato (seppur palese) riferimento all’“edipico” Complessità e contraddizioni nell’architettura [6] contenuto nella frase ad effetto: «Un’architettura che includa anziché escludere», a cui Ingels ricorre di soppiatto per giustificare la propria filosofia da yes man, dimenticando, però, che nello stesso libro Venturi ha anche scritto che «Non vi sono leggi prefissate in architettura, ma non per questo in un edificio od in una città qualsiasi elemento funziona».

Di questi e altri piccoli errori/orrori Bjarke Ingels farcisce il suo posticcio manifesto, tra le righe del quale, invece di una teoria evolutiva dell’architettura eretta sulla base di un «pragmatismo utopistico» tutto da verificare, riusciamo soltanto a intravedere il tentativo dell’autore di conferire identità e struttura a un insieme disordinato di idee divertenti ma demagogiche: che non solo sono del tutto insufficienti a fondare un pensiero architettonico coerentemente rivoluzionario (o evoluzionistico, come vorrebbe l’architetto danese) ma, soprattutto, sono gravemente responsabili di aver conferito dignità di stampa a un modo di pensare l’architettura à la Ponzio Pilato.

Ora, il caso delle traballanti fondamenta teoriche di Yes is More mi permette di recuperare l’ipotesi di partenza di questo scritto, ovvero il supposto disinteresse di parte dell’architettura contemporanea (quella meglio rappresentata dai lavori di BIG – dunque una parte tutt’altro che indifferente) a entrare in relazione con la realtà. Per chiarire questo punto bisogna rifarsi alle parole di Giulio Carlo Argan, che in Progetto e Destino [7] ha scritto che «Non si progetta mai per ma sempre contro qualcuno o qualcosa» e che «È quindi impossibile considerare la metodologia e la tecnica del progettista come zone di immunità ideologica». Il progetto, scrive Argan, sorge sempre dal desiderio di modifica di una situazione considerata insoddisfacente: «Allorché formulo un giudizio, cioè compio un processo critico grazie al quale accerto che una data situazione non mi soddisfa e che quindi intendo cambiarla, quella situazione passa […] “in giudicato”, diventa passato, ossia diventa per me pensabile solo in quel processo critico che è la storia» [8]. L’atto della negazione, in questo senso, è connaturato al progettare, che Argan intende sempre come atto critico (del resto, se una situazione è ritenuta soddisfacente, perché modificarla?). Tali riflessioni illuminano la già citata “catena edipica”, rozzamente messa alla berlina da Ingels, di una luce ben diversa: non si tratta, infatti, di criticare gratuitamente i propri maestri, quanto piuttosto di passare al vaglio la loro eredità – dunque non solo le loro opere, ma anche la specifica visione del mondo da loro inaugurata – e metterla in aperta discussione, se ritenuta insoddisfacente rispetto alle esigenze della società e della cultura attuali. Così fecero tutti i più grandi architetti del passato e così dovrebbero fare anche gli architetti contemporanei. Perché al di fuori di un sistema progettuale basato sull’analisi e messa in discussione della tradizione (e non sulla compiacente metabolizzazione dello status quo), non è pensabile alcun tipo di progresso della disciplina architettonica.

Nel corso dei secoli VI e V a.C., come ha osservato Karl Popper [9], si compì un evento di straordinaria importanza: l’invenzione di una filosofia razionale da parte di alcuni pensatori greci, fondatori della tradizione scientifica occidentale. Nel tentativo di comprendere i fenomeni naturali, essi misero per la prima volta in discussione i miti della tradizione religiosa, respingendoli e sostituendoli con nuovi miti, implicitamente accompagnati dalla richiesta della loro stessa sostituzione, nel caso in cui questi ultimi non fossero stati ritenuti soddisfacenti dalle persone cui venivano trasmessi. Tale era, e tale dovrebbe tornare a essere, l’architettura: un lavoro collettivo intergenerazionale, non certo finalizzato all’affermazione altalenante delle inclinazioni personali dei singoli progettisti, bensì caratterizzato dalla loro partecipazione, per mezzo di continue critiche e rilanci, al razionale e progressivo processo di miglioramento delle condizioni del nostro abitare.

È tornato il momento di dire di “no”. Viva il progresso: Yes no More!

Davide Tommaso Ferrando

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Note

[1] ENNIO FLAIANO, Filosofia del rifiuto, in ID., Diario degli errori, Adelphi, Milano 2002, p. 98.

[2] Salvo poi scoprire che nulla è realmente originale, e che ogni atto creativo si presenta sempre come copia e variazione di una o più opere del passato.

[3] Bastino, come esempio, il People’s building di Shanghai, il Vilnius World Trade Center 1 e la Zira Zero Island in Azerbaijan.

[4] BJARKE INGELS, Yes is More. Un archifumetto sull’evoluzione dell’architettura, Taschen, Colonia 2011.

[5] Cfr. ALVAR AALTO, Influenza dei processi costruttivi e della natura dei materiali sull’architettura contemporanea, in ID. Idee di architettura. Scritti scelti 1921-1968, Zanichelli, Bologna 1987, pp.46-50.

[6] ROBERT VENTURI, Complessità e contraddizini nell’architettura, Dedalo, Bari 2005.

[7] GIULIO CARLO ARGAN, Progetto e Destino, Il Saggiatore, Milano 1968.

[8] ID., Lezione, 23 febbraio 1982, in LUCA MONICA (a cura di), La critica operativa e l’architettura, Unicopli, Milano 2002, P. 62.

[9] Cfr. KARL R. POPPER, Per una teoria razionale della tradizione, in idem, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1972, pp. 207-233.

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