Contro la fine dell’architettura

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[Riportiamo  il testo integrale dell’introduzione di Vittorio Gregotti]

La difesa dell’identità disciplinare del lavoro di architettura è il filo rosso di questo scritto.

Immagino, però, che il concetto stesso di disciplina, scientifica, tecnica o umanistica che sia, possa apparire piuttosto contraddittorio rispetto alle pratiche delle arti e quindi dell’architettura, non solo per le radici che connettono la parola «disciplina» all’idea di regola e obbedienza e persino di dispositivo di controllo di un processo progettuale, ma anche a partire dalle incertezze che ne prefissano fondamenti e confini. Tutto questo è poi complicato dal fatto che per destino le arti si collocano continuamente ai propri confini disciplinari pur senza rinunciare all’essenza di ciascuna di esse.

Tuttavia non vi è dubbio che anche le arti hanno, come le altre discipline, una storia, una tradizione, una mutazione nei territori di ricerca oltre a teorie e fondamenti. In questo senso anche l’architettura può essere considerata una disciplina (almeno da un paio di secoli, da quando, cioè, la nozione di disciplina si è costituita per le scienze) sia pure con speciali caratteri di coincidenza tra ricerca teorica e fare; ed è questa la ragione per cui tanto sovente ricorro all’espressione «pratica artistica» per definire le cose dell’arte.

Anche il territorio delle discipline dell’architettura e la riflessione teorica ad esse connessa si è modificato e differenziato nel tempo, si sono molto trasformate le relazioni con la società, le sue complessità e le sue aspettative, oltre che la sua morfologia. Si sono trasformate anche le condizioni tecniche del fare, le procedure e il ruolo stesso dell’architetto tra gli attori della costruzione insieme al suo posto nella società, nonché le relazioni con le altre discipline e il mutare per essa della loro importanza.

La circolazione poi di un’enorme quantità di immagini già nel XX secolo e, successivamente, il fenomeno del riciclaggio artistico delle immagini delle arti nella vita quotidiana ha anche posto il problema di ridefinire il rapporto tra produzione e riproduzione.

Nell’ultimo mezzo secolo, però, il cambiamento (anche quantitativo) di tali condizioni di produzione e riproduzione è stato tanto forte da far assumere caratteri di incertezza non solo ai confini diversi dei territori di ciascuna delle arti, proprio quando il dialogo interdisciplinare, insieme a straordinari contributi, ha messo nello stesso tempo in discussione le loro identità, rendendone compiti e fondamenti più confusi e liquefatti.

Tale liquefazione è stata vissuta da molti come liberazione di forze creative assolutamente autonome o completamente incollate allo stato delle cose, nel rigetto di ogni responsabilità a di ogni distanza critica dalla realtà empirica, ma anche da ogni fondamento del proprio fare che, in una continua ricostruzione, ne sostiene la necessità. Tutto questo è avvenuto al contempo con la diffusione dei processi di estetizzazione su ogni atto e cosa del mondo, facendo abusivamente coincidere le nozioni di arte e comunicazione e proponendo i mezzi stessi come fini, confondendo razionalità e ragione strumentale: smarrendo, cioè, la necessità del senso di ciò che solo ciascuna delle arti può dire.

Delle ragione e delle conseguenze di tale processo di liquefazione sull’architettura si scrive in questo piccolo libro.

Indice

Introduzione | p. 3

I. Intorno alla teoria del progetto | p. 6

II. Interdisciplinarietà: un’interpretazione | p. 44

III. La modificazione delle condizioni di produzione dell’architettura | p. 73

IV. In difesa dell’identità disciplinare dell’architettura | p. 103

Riferimenti

  • titolo > Contro la fine dell’architettura
  • autore > Vittorio Gregotti
  • editore > Einaudi
  • anno > 2008
  • prezzo > 10,00 euro

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