La retorica del “rammendo”

massa critica | conrad-bercah

Un mese fa veniva pubblicato sul Domenicale del Sole24 Ore un breve scritto di Renzo Piano (successivamente ripubblicato su Archphoto) nel quale si trovano elencati i principali temi urbanistici che l’architetto e neo senatore genovese intende affrontare per risolvere i problemi delle periferie italiane. Il testo di Piano illustra in maniera chiara e condivisibile una serie di concetti importanti che però, come scrive conrad-bercah in questo articolo, non sembrano tener conto “né della situazione amministrativa italiana, né della dimensione e della gravità del problema del degrado del territorio”. In effetti, i punti strategici individuati da Piano riflettono in maniera soltanto parziale, e un po’ scontata, le sfide progettuali che architetti e urbanisti sono oggi chiamati ad affrontare. Tra queste, l’attuale disequilibrio (recentemente segnalato su Internazionale) tra il numero di abitazioni disponibili e il numero di persone senza casa costituisce, a mio avviso, non solo una delle questioni più urgenti per il prossimo futuro, ma soprattutto un problema difficilmente risolvibile senza mettere in discussione la necessità di continuare a costruire. In questo senso, la “semplicità” della proposta di Piano ne costituisce un pregio e un difetto allo stesso tempo: un pregio perché, quanto più un messaggio è chiaro, tanto maggiore può essere la sua diffusione e ricezione da parte dei non addetti ai lavori (ai quali, evidentemente, Piano intende rivolgersi); un difetto perché, per essere ampiamente comprensibile e attuabile, tale messaggio è costretto a ridurre la propria complessità e radicalità. Di questa e altre contraddizioni molti giornalisti italiani, sottolinea conrad-bercah, sembrano non essere interessati a occuparsi: apparentemente indifferente ai problemi che la circonda, certa stampa ha infatti dismesso da tempo la propria (necessaria) funzione critica, preferendo affidarsi caso per caso agli indiscutibili precetti del guru del momento. In sintesi, cari giornalisti ed egregio senatore, si può fare di più?         

Davide Tommaso Ferrando

Fenomenologia della fortuna di Renzo Piano nella stampa italiana

I mass media sembrano aver bisogno, oggi più ieri, di Übermenschen a cui aggrapparsi, ovvero individui a cui non chiedere mai di diventare niente di diverso da ciò che essi già sono: dei supermen al lavoro al servizio dei restanti everymen, o uomini assolutamente medi.

In Italia, parlare di Übermenschen risulta sconveniente per non allarmare la sensibilità del Vaticano, che risulta, al contrario, non avere problemi nell’operazione mediatica di vestire l’Übermensch con le vesti del ‘santo laico,’ che, come si sa, è infallibile, o quasi, e pertanto non deve essere confrontato, o messo in difficoltà in nessun modo. Il ‘santo laico’ ha un ruolo da svolgere: deve indicare un ideale apparentemente vicino ma in realtà sufficientemente irraggiungibile in modo che esso non possa tradursi in una serie di operazioni effettive volte a modificare lo stato delle cose. Nessuno pretenderà mai di nemmeno immaginare di verificare quanto il raggiungimento dell’obiettivo sia possibile, o sensato. Quello che è importante è che l’obiettivo svolga la sua funzione di narcotico in grado di stabilire una certa tensione tra la fiction e la realtà, anestetizzando entrambe.

Il caso più vistoso della elevazione di un individuo a santo laico lo si registra in Italia nella figura di Renzo Piano e nella storia della sua fortuna mediatica. Idolatrato oggi dalla quasi totalità dei media e, per estensione, della popolazione, il successo urbi et orbi di Piano è, in realtà, relativamente recente, e il suo inizio può essere datato all’anno 2000, ovvero all’anno in cui fu insignito del premio Pritzker alla Casa Bianca a Washington. Prima di allora, l’opera di Renzo Piano è stata sostanzialmente assente sia dalla pubblicistica generalista che da quella di settore, o accademica, che preferiva ignorare il coautore del Centre Pompidou a Parigi e la di lui opera, considerata, per lo più, l’opera di un ‘idraulico’ che aveva studiato un testo avariato di latino, senza molto capirlo. Dopo l’investitura del Pritzker Prize, Piano è assurto―nella definizione canonica di Arbasino―alla terza fase della tipica carriera di un autore in Italia, quella del venerato maestro (terza fase), dopo essere stato ‘il solito stronzo’ (seconda fase) e giovane promessa (prima fase).

Piano, in realtà, deve il suo successo (e recente ruolo di Santo Nazionale) ad un fascino immediato costruito su una retorica pacata e sufficientemente semplice da non porre in stato di inferiorità nessun giornalista, neppure il più sprovveduto. Per capire questo straordinario potere di Renzo Piano, è forse utile ricorrere ad una rapida analisi di alcune delle parole da lui usate per promuovere il suo ultimo ‘progetto’ stimolato dalla sua elezione a Senatore a vita della Repubblica.

‘Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle ‘idee.’

Con queste parole, incipit di un articolo pubblicato su una intera pagina dell’edizione domenicale del Sole24Ore, Renzo Piano ha posto le basi della sua nuova attività: promuovere un progetto per il malconcio territorio italiano messo a punto da un gruppo di sei giovani architetti (da lui coordinati) e finanziati dal suo stipendio di senatore.

Lo stesso Piano aveva anticipato gli stessi argomenti, parola per parola, in una intervista la sera prima della pubblicazione su IlSole a “Otto e Mezzo” su La7 e, come era facile prevedere, il doppio intervento ha immediatamente alimentato un coro di lodi sperticate da parte dei soliti (noti) conformisti. Un coro, che, come è altrettanto facile da prevedere, ritornerà ad essere silente a stretto giro. Prima della imminente uscita di un nuovo capitolo (digitale, questa volta) di “Abitare Being” in cui si possa officiare ufficialmente lo stanco rito di lode del San Renzo da Genova, sembra opportuno approfittare della limitata finestra temporale concessa per fare alcune considerazioni sulla retorica e le ‘idee’ espresse nell’articolo e sul triste ruolo di veicolo acritico e silente della stampa generalista, e non.

Quali sono le ‘idee’ enucleate da Piano nell’articolo per rendere vivibili le periferie? Esse sono, principalmente, quattro e appaiono essere una sorta di ‘teorizzazione a posteriori’ dei lavori in corso nell’ufficio di Piano (i masterplan per Columbia University e per Sesto San Giovanni). Secondo questo piano (in via di definizione) sarebbe necessario, nell’ordine, (1) smettere di costruire e, invece, costruire sul costruito, (2) ‘rammendare’ l’esistente senza ricorrere a demolizione, (3) impiantare Green Belts, e, infine, (4) promuovere il Car sharing invece che nuovi parcheggi.

Per chi naviga il web, nessuna di queste ‘idee’ risulta innovativa, o nuova ed appare, invece, come la stanca ripetizione di un metodo e di un programma che sono alla base di un progetto del 2000 dello Stesso Piano per la riqualificazione dell’area del Ponte Lambro, a Sud-Est della città di Milano di cui si sono perse le tracce—un fatto su cui lo stesso Piano trova più conveniente soprassedere.

Ad essere corretti, occorrerebbe sottolineare come, più che di ‘idee,’ l’articolo elenchi nozioni generali di buon senso e di good governance che, nei paesi del Nord Europa, ad esempio, sono implementate quotidianamente o quasi, anche se l’assunto che una Green Belt sia a priori in grado di risolvere il problema delle periferie perché elemento di confine preciso—la Green Belt—tra città e campagna appare—to resort to an understatement—curiosa e leggermente dogmatica.

I singoli punti del piano di Piano per le periferie non sembrano meritare ulteriore approfondimento nello spazio limitato del presente intervento. Si tratta, ovviamente, di punti sicuramente da perseguire ma, di per sé, insufficienti se si vuole incominciare ad affrontare la questione complessa del territorio e, soprattutto, della sua amministrazione che, in Italia, è diventata (come ho avuto modo di spiegare in un mio report su Venezia, per chi fosse interessato ad un approfondimento del tema) di fatto impossibile, a causa di una foresta selvaggia di regole e contro-regole in competizione tra loro.

Si ritiene più interessante segnalare il problema di ordine generale posto dalla retorica utilizzata nell’articolo che non sembra tenere conto né della situazione amministrativa italiana, né della dimensione e della gravità del problema del degrado del territorio. E neppure di registrare la condizione (evidente a tutti coloro che intendono usare i propri occhi per vedere) per cui, nello sprawl generalizzato che caratterizza il terzo millennio, trovare i confini delle ‘città’ sia diventato un esercizio per (bravi e competenti) archeologi, una categoria di persone non esattamente disponibile.

La vicenda è nota: le informi conurbazioni italiane languono, come tutti sperimentano ogni giorno, in uno stato tale di abbandono, incuria, disprezzo, corruzione e mala gestione che possono essere paragonate ad un corpo affetto da milioni di metastasi che hanno avvolto ad un punto tale la gloriosa storia urbanistica della penisola da renderla irriconoscibile. Si tratta di un processo che interessa la maggior parte del mondo sviluppato, ma che in Italia raggiunge estremi di degrado molto preoccupanti.

Quello che più inquieta è, appunto, la logica nefasta dell’opposizione tra centro storico e periferia a partire da un punto di vista semantico e geometrico, prima ancora che da un punto di vista sociale. Si tratta, evidentemente, di una logica che viene da lontano e che misura il valore (anche immobiliare) delle costruzioni sulla base della distanza tra le costruzioni stesse e la Piazza, o luogo in cui trovano sede sia la Chiesa che il Palazzo, ovvero il potere spirituale e quello temporale.

L’architetto Piano è noto per non assumere mai posizioni che possano risultare politicamente sconvenienti, o dannose al fine di assumere incarichi di carattere pubblico. il senatore Piano appare, in questa prima uscita, una grigia copia del professionista Piano che, per gli ovvi motivi di cui sopra, ha sempre enfatizzato la sua professione di tecnico lontano dalla ‘politica.’ Il problema, però, è appunto questo: che il Senatore Piano dovrebbe capire che la sua nomina a Senatore a vita, la sua età e il suo curriculum dovrebbero essere da lui utilizzati per spendersi davvero per un problema come quello del salvataggio del territorio, ovvero un problema che lui stesso dice di avere a cuore.

Non si può porre un problema di questa portata nei termini in cui li pone Piano, come se bastasse mettere qualche alberello e qualche panchina qua e là per sanare una situazione probabilmente insanabile senza prendere in considerazioni provvedimenti draconiani.

Non si può porre il problema senza contrastare, in radice, la logica deviata del centro e della periferia e senza sostenere, invece, che non ci dovrebbero essere né centro né periferia, ma una giustapposizione organica di centri indipendenti e autonomi, ognuno con il corretto ammontare di spazi aperti, o verdi.

Ma, per lasciare spazio alla retorica semplice di Piano: ‘un politico dovrebbe attenersi al giuramento degli eletti di Atene: lasciare la città meglio di come la si è avuta in consegna.’ Piano pone il problema, ma poi, un attimo dopo, si ritira: tira il sasso nello stagno ma poi si nasconde dietro ad un dito ed evita di porre davvero la questione che dovrebbe essere sulle prime pagine di tutti i giornali tutti i giorni: il problema (vitale) dello stupro del territorio italiano perpetrato in oltre 50 anni di dissennata amministrazione pressoché ovunque.

Piano, per non suscitare vespai, preferisce parlare di ‘rammendo idrogeologico, sismico, estetico’ operato con il bisturi, non il piccone o la ruspa,’ non accorgendosi della contraddizione in termini: un rammendo geologico? Un rammendo sismico? Ma davvero non si trova un giornalista in grado di chiedere a Piano cosa sia un ‘rammendo’ sismico? o geologico?

Incredibilmente, la retorica del rammendo non è contrastata da nessun membro della stampa accreditata, generalista e non. Nessuno osa neppure pensare di chiedere allo stesso Piano che tipi di risultati pensa di ottenere tramite il ‘bisturi’ per rammendare, a titolo di esempio, la grande quantità di torri in vetro a specchi con cui il Ligresti di turno ha costellato, e continua a costellare―Porta Nuova, ex-Fiera―il territorio milanese nel corso degli ultimi cinquant’anni.

Non lo ha chiesto Lilli Gruber. Non lo ha chiesto Beppe Severgnini, presente alla trasmissione. Non hanno chiesto a Piano come pensa di ‘rammendare’ i brutali interventi di edilizia speculativa che hanno sfigurato il territorio italiano. Hanno preferito ‘mollare le briglie del giornalismo’, e lasciare il neo senatore libero di parlare dell’architetto ‘condotto, una sorta di medico che si preoccupa di curare non le persone malate ma gli edifici malandati.’ Sono riusciti addirittura a chiedergli di elencare le qualità che apprezza di più in una donna!

Sia Piano che i giornalisti che lo intervistano, non sembrano essere assaliti dal dubbio che, dallo scranno di senatore a vita, forse sarebbe meglio usare il suo tempo per cercare di dipanare l’inestricabile giungla legislativa e burocratica che ha reso impossibile praticare la professione di architetto in Italia.

Oppure dubitare che la categoria interpretativa del ‘rammendare’ possa essere una categoria inadatta, o troppo democristiana, o troppo politicamente corretta per affrontare un cancro normativo, legislativo, culturale e sociale come quello che si espande, ogni giorno, su quello che è rimasto del territorio italiano.

Piano sembra credere che il suo piano strategico del rammendo possa essere adottato come piano guida dalle varie amministrazioni comunali, e preferisce dimenticare insieme alla stampa, che pure ne ha dato copioso ed esaustivo spazio nei suoi notiziari, che neppure a lui è stato concesso di piantumare i 10.000 alberi che lo scomparso Abbado aveva chiesto come compenso per tornare a dirigere la Scala.

Nessuno si chiede cosa voglia dire rammendare. Rammendare significa ‘accomodare un tessuto logoro, con fili passati a intreccio.’ È sinonimo di rattoppare. Prevale, dunque, l’idea di metterci una toppa. O un rammendo, appunto, e fare finta che vada tutto bene. Si tratta, in brevis, della stessa, esatta forma mentis, o retorica che ha condotto il paese nel suo stato attuale.

La retorica di Piano si rispecchia, in modo allarmante, nella retorica vuota della stampa italiana, incapace di affrancarsi dal suo peccato originale: quello di essere nata al servizio della (scarsamente) illuminata classe dirigente, l’unica classe che, nei 150 anni di vita del paese, fosse in grado di leggere, o di far finta di leggere. La stampa continua a rimanere al servizio del notabilato o del potente del momento, e appare incapace di promuovere un discorso critico di qualsivoglia natura.

In generale, sembra che la stampa italiana non sia in grado di liberarsi del curioso incrocio di due ben note sindromi: la sindrome di Mike Bongiorno e la sindrome di Peter Pan, ovvero la capacità di non vergognarsi di essere ignoranti e di non provare il bisogno di istruirsi insieme alla psicologia pop di essere contento di essere socialmente immaturo.

Come Bongiorno, la stampa entra in contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatta, ponendo gran cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all’oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionata a non apprendere nulla.

Come Bongiorno, la stampa non sembra essere minimamente sfiorata dal sospetto che possa esistere una funzione critica e creativa della cultura. Di essa, ne ritiene un criterio meramente quantitativo. Evita la polemica, anche su argomenti leciti. Ricevuta la spiegazione non tenta di approfondire la questione, non per proposito ideologico, ma per disinteresse. Il suo ruolo rimane conservatore, paternalistico, immobilista.

Come Peter Pan, non accetta l’idea che a una domanda possa esserci più di una risposta. Guarda con sospetto alle varianti. La stampa non conosce i dati, e neppure dà segno di volerli conoscere. Reagisce di fronte ai dati come un cervello elettronico, perché è fermamente convinto che ‘tertium non datur.’

Come Peter Pan, la stampa si rifiuta di crescere e preferisce continuare d immaginare l’isola che non c’è. Come Peter Pan, si pone a capo di una banda di “Bimbi Sperduti”, in compagnia di sirene, indiani, fate e pirati. Dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che, come il senatore Piano, sembra avere il curriculum adatto a sapere tutto quanto è necessario sapere. La stampa, in altre parole, trova più conveniente elevare l’architetto-senatore a Santo nazionale, e di questo sembra essere soddisfatta.

La stampa sembra rimanere contenta del fatto che il paese rimanga, come ha scritto Ennio Flaiano, ‘un paese in cui sono accampati gli Italiani, un popolo che si ostina ad ‘immaginare l’Inferno come un luogo dove, bene o male, si sta con delle donne nude e dove, alla fine della fiera, ci si mette d’accordo con il Diavolo.’

È davvero un peccato, per chi osserva da lontano, che lo stesso popolo sia riuscito nella difficile impresa di aver trasformato il paese in un inferno quotidiano e che non si sia accorto che non ci sia neanche più un diavolo di un Diavolo con cui mettersi d’accordo.

conrad-bercah

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3 risposte a “La retorica del “rammendo””

  1. Francesco Garofalo ha detto:

    Conrad Bercah (un giorno mi dovrà fornire una spiegazione o un manuale d’uso del suo nome, visto che per me sarebbe più semplice apostrofarlo come Paolo), è uno scrittore veramente brillante. E pone delle questioni importantissime. Però si compiace troppo di avere assestato il colpo polemico, qualche volta semplifica – in questo caso rischia che l’accusa a Renzo Piano gli possa essere ritorta contro, e infine avrebbe bisogno di un editor che gli sottolinei gli anglicismi (“confrontato” usato per sfidato o messo in discussione, “implementare” ecc.).

    Non è chiaro se ha in mente un modello alternativo a quello di Piano (usare l’accetta invece del rammendo), oppure se la contrapposizione è tra superficialità e serietà nel modo di comunicare. A me sembra che si possano criticare i meccanismi della comunicazione, e CB lo fa con arguzia, ma allo stesso tempo essere consapevoli del livello a cui questa comunicazione si svolge, che non esclude una definizione più puntuale e precisa di strategie, quando si passi ad operare su piani più concreti con interlocutori specifici.

    Per esempio, Richard Rogers ha rivestito molto a lungo lo stesso ruolo in Inghilterra, e per chi conosce un po’ la storia, è evidente che Renzo Piano in parte si modella su quel precedente che gli è congeniale per tanti motivi (hanno esordito insieme e hanno lo stesso numero di mogli). E tuttavia qualche risultato concreto l’influenza di Rogers, sui media, sulla politica e sulla comunità architettonica, lo ha avuto, anche se per tutto il tempo architetti più radicali e critici più esigenti hanno giustamente arricciato il naso.

    Io direi che quel livello di retorica si può criticare, ma se si deve sostituire con un’altra, essa deve avere certe caratteristiche di semplicità e chiarezza che la rendano appropriabile dall’opinione pubblica e da chi la rappresenta. Essa insomma è un mezzo e non un fine. Forse si può dire che quella di Piano arriva tardi, e che pare destinata, per alcuni dei motivi citati da CB, all’ineffettualità. Ma seguendo il filo del suo pessimistico ragionamento, altrettanto sembra prevedibile per le drastiche ricette di CB.

    Dopo che CB ha pubblicato il suo post, il nuovo primo ministro ha citato la formula del rammendo e il suo autore nel discorso con cui ha chiesto la fiducia al parlamento. Immagino che questo confermi tutte le severe critiche di CB, anzi gli procuri la soddisfazione di averci azzeccato. Io che non sono meno radicale e pessimista di lui, però tendo a vedere il bicchiere mezzo pieno per due motivi che credo si saranno già intuiti da quanto detto fin qui. Il primo è: meglio una retorica così-così che l’indifferenza assoluta, esibita dai governi di destra, sinistra e centro che si sono succeduti in Italia, compresi gli ultimi due. La seconda è che qualsiasi programma dovesse nascere da questa retorica, potrebbe essere orientato in maniera più efficace. Insisto un momento su questa nozione di “programma”, che è la dimensione più trascurata delle politiche di gestione della città e del territorio. Spesso gli amministratori ricorrono alla ambigua parola “qualità”, o lanciano qualche concorso di progettazione per far sfogare gli architetti e riempire le pagine locali – e questo è più o meno tutto, quando c’è. Invece un programma è una serie copiosa di interventi dotati di un fine comune e di una gestione coerente. Per concludere con un esempio arcinoto, non solo la retorica, ma proprio l’origine del programma Ina Casa stava ben piantato nel fascismo. Ma ciò non gli ha impedito di diventare il simbolo della Ricostruzione post-bellica e del neorealismo, realizzando 120.000 case per lo più di buona qualità e progettate dai migliori architetti italiani.

  2. conrad-bercah ha detto:

    La cultura del low cost. Italia 2014

    Caro Collega,

    Il tuo commento pone una dicotomia: accetta o rammendo?

    Nessuno dei due. Meglio usare la dinamite, e creare le condizioni per un Nobel Project for urbanity che possa ridare al nome Nobel (Alfred) il credito che giustamente gli si deve, e non quello alterato fabbricato artificialmente dai media al fine di meglio vendere i propri prodotti.
    vedi link
    http://www.linkiesta.it/blogs/archipelago-town/nobel-project-urbanity-mmm-manifesto

    Si è raggiunto un tale stato di degrado che anche il tempo dell’accetta è passato da un po’, e mi stupisce il fatto che tu, che vivi in una città di S.M.U.R―Self Made urbanism―ergo 30 % di costruzioni illegali―una città che sta per dichiarare (ufficialmente) bancarotta, possa pensare che si possa ancora ricorrere alla retorica (Andreottiana) del compromesso per silenziare i cani insolenti che abbaiano.

    vedi links
    http://www.linkiesta.it/blogs/archipelago-town/self-made-urbanism-roma-exhibition-berlin http://www.linkiesta.it/salva-roma-capitale-non-diventi-grande-mantenuta
    ‘The era of procrastination, of half-measures, of soothing and baffling expedients, of delays is coming to its close. In its place we are entering a period of consequences.’
    Lo ha detto, Churchill, nel 1937 a proposito dell’evoluzione politica in Germania. Non è stato ascoltato.

    Mi pongo una semplice domanda: Ma cosa deve ancora succedere prima che si realizzi la gravità delle situazione?
    Scrivi che è ‘meglio una retorica così-così che l’indifferenza assoluta, esibita dai governi di destra, sinistra e centro che si sono succeduti in Italia, compresi gli ultimi due’ e che ‘qualsiasi programma dovesse nascere da questa retorica, potrebbe essere orientato in maniera più efficace perché ‘un programma è una serie copiosa di interventi dotati di un fine comune e di una gestione coerente.’ Ma riesci a fare l’esempio di un comune―uno solo―che negli ultimi 25 anni, abbia prodotto un intervento ‘dotato di un fine comune?’ Ma davvero non vuoi vedere cosa è successo alle stazioni ferroviarie? Agli aeroporti? Ai porti? Vogliamo davvero parlare di EXPO 2015?
    Leggo adesso il tuo commento al mio blog di due anni fa esatti, sulla cultura del Ribasso, imperante allora come oggi.
    (http://www.linkiesta.it/blogs/archipelago-town/la-cultura-del-ribasso-la-nuova-bandiera-italiana)

    Trovi che la situazione sia, nel frattempo, migliorata?
    Trovi che il rammendo di Piano basti a sanare il 30% di costruzioni illegali a Roma?
    O a sanare lo scempio della Pianura Padana?

    La contrapposizione non è tra ‘superficialità e serietà nel modo di comunicare.’

    Screw the communication!
    We all being buried under a garbage heap of useless, mischievous, misdirected communication!

    La contrapposizione è tra competenza e incompetenza, tra stato di diritto e illegalità accettata nel silenzio generale.

    Non si possono raggiungere risultati soddisfacenti partendo dalla logica ribassista del low cost!

    La cultura imperante del low cost, del risultato minimo a costo zero, non è davvero in grado di essere di aiuto. Forse funziona per le compagnie aeree, or per l’Ikea. Ma non può funzionare per costruire una urbanità che possa essere chiamata tale.

    La retorica del rammendo del senatore Piano ricorda la performance dei musicali all’opera sul ponte del Titanic mentre la nave sta per affondare, con la differenza che è suonata da una piattaforma riscaldata, e inaffondabile mentre i Guggenheim e gli Ascot della situazione trovarono il buon gusto di affondare (in frac) con la nave.

    Come al solito, niente riassume meglio la situazione, dei graffitari romani.
    ‘Annatevene tutti, lassatece piagne da soli.’

    conrad-bercah
    (tutto minuscolo)

    p.s.
    Spero che i links siano ben visibili e di aver evitato anglicismi, this time at least.

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