SE7TIMI IN QVINTA [dialogo critico]

DTF: per quanto riguarda il recupero di palazzo Chiablese, il riferimento selettivo alla preesistenza e il richiamo ad Eisenman, come scritto nella prima mail, non obietto più del necessario: ogni progetto ha la sua quota di “arbitrio”, ed è evidente che la vostra si raccoglie in questi ragionamenti analitici.

Per quanto riguarda la promenade, non era mia intenzione opinare sul suo funzionamento, ma sul come essa svolga, architettonicamente, il ruolo stesso di promenade. Quello che, infatti, è un tema fortissimo e pieno di riferimenti e declinazioni nella storia dell’architettura, nel vostro progetto è trattato in maniera, a mio parere, troppo “debole”, così come gli altri “temi strategici” che ho elencato nella mail precedente: invece di portarli (o cercare di portarli) alle loro conseguenze poetiche (attenzione: da poieo, “costruire”), è infatti mia impressione che vi siate limitati al corretto utilizzo di una serie di dispositivi (promenade, prismi vetrati, pelle) il cui ricorso puntuale non riesce però a dotare di sufficiente valore architettonico il progetto nel suo complesso – e questo proprio perché tali dispositivi non riescono né a prendere il sopravvento, né a dialogare tra di loro. Questo si evince, tra l’altro, dalla vostra stessa spiegazione del progetto che, dopo le complesse analisi inziali, si sviluppa attraverso l’elenco delle diverse parti che compongono l’edificio, ciascuna delle quali sembra instaurare una realtà autosufficiente, chiarendone il funzionamento senza però affrontare il delicato tema del rapporto reciproco tra tali parti.

Per quanto riguarda la metafora dei fusti d’albero e delle foglie, vi consiglio di leggere il saggio Contro l’interpretazione di Susan Sontag, che in italiano è contenuto nell’omonimo libro, in cui l’autrice scrive che:

l’interpretazione non è un valore assoluto, un gesto della mente situato in un qualche dominio atemporale delle capacità umane. L’interpretazione deve essere a sua volta valutata, nell’ottica di una concezione storica della coscienza umana. In certi contesti culturali, l’interpretazione è un atto liberatorio. […] In altri contesti culturali è reazionaria, impertinente, codarda, asfissiante. [E] quella attuale è una delle epoche in cui l’attitudine interpretativa è in gran parte reazionaria e asfissiante.

La retorica fa perdere di vista l’architettonico dell’architettura, che è essenzialmente struttura, costruzione, materiali: il valore di un’opera non sta, infatti, in quello che l’architetto vuole comunicare, ma in quello che l’opera è. Nel vostro caso, la facciata in pilastri d’acciaio con pelle in cor-ten non è una allea alberata (e nemmeno ne ricrea per davvero l’effetto), sebbene nelle vostre intenzioni evidentemente lo sia. Il fatto è che la possibilità di interpretare tale facciata come una allea alberata è, per definizione, legata alla soggettività di ciascuno, e siccome siamo tutti diversi, non è possibile stabilire alcun valore quantificabile per una simile scelta progettuale che, di conseguenza, non può aggiungere alcuna qualità al progetto nel suo complesso (anzi, secondo Sontag, ne toglie parecchia).

Lo stesso dicasi per il problema della “mediazione” tra i due volumi adagiati sul vostro edificio: il vostro obiettivo non deve essere “mediare”, bensì portare alle estreme conseguenze scelte progettuali il più ridotte (nel numero) e coerenti (nei rapporti tra di loro, nella loro costruzione, nel rapporto con la storia dell’architettura) possibile. Aggiungere una pelle di vetro a un volume in pietra significa, inevitabilmente, produrre un ornamento non necessario e dunque, come scrive Loos, compiere un delitto (a meno che tale scelta sia dettata da esigenze climatiche, il ché però, se così fosse, ci ripoterebbe al problema di partenza, ovvero al “come mai in quel volume sì e nel resto del progetto no”?). Se siete convinti che sia il vetro, il materiale che può risolvere il vostro progetto, allora è con il vetro che dovete lavorare, dalla testa ai piedi del vostro progetto. Se invece volete lavorare con la pietra, questa deve divenire il materiale principale, e così via (diceva il mio professore di critica che 3 è il numero massimo di materiali che si devono utilizzare in ogni progetto).

Per quanto riguarda la pelle traforata, valga lo stesso discorso fatto per la promenade: non metto in discussione il suo funzionamento, che è chiaro (alleggerimento del prospetto, filtro luminoso etc.), ma il modo in cui essa svolge tale ruolo: resta infatti, ad esempio, ancora valida l’osservazione della mail precedente (che non avete risolto nella vostra risposta) sul problema dell’opposizione tra continuità della superficie traforata e ritmo dei pilastri in acciaio. In sintesi: se volete una facciata ritmata, allora non dovete usare una pelle continua; se volete una facciata continua, allora dovete trovare il modo di nascondere davvero i sostegni verticali. Accettare entrambe le condizioni (continuità e ritmo) è, nuovamente, una mediazione che toglie forza al vostro progetto.

Concludendo: il vostro progetto funziona molto bene, non c’è dubbio, si fonda su una buona base analitica e si avvale di linguaggi e materiali tratti dall’architettura contemporanea, anche questo è fuori discussione. Ma l’architettura deve fare qualcosa di più di questo: la parte più difficile, e più importante, è infatti la selezione, sintesi e costruzione in un tutto organico dei riferimenti dai quali si parte ogni volta (tipologici, storici, analitici, morfologici etc.) e delle intenzioni che muovono l’atto progettuale stesso. L’omogeneità (solo se è intesa come coerenza) è infatti alla base del valore architettonico di un progetto, mentre il funzionamento (se è inteso soltanto come la possibilità di svolgere comodamente un certo numero di funzioni all’interno di un edificio) no: esistono, infatti, innumerevoli esempi di edifici privi di qualsiasi valore architettonico che, tuttavia, “funzionano” perfettamente.

DC, PB: caro Davide, sarà anche per il corso di studi da cui veniamo, nello specifico restauro e valorizzazione, come spiegato in precedenza, i nostro sforzi iniziali si sono basati su un’attento studio della preesistenza per passare ad una corretta composizione della nuova manica. La scelta dei vari dispositivi utilizzati per andare a comporre questa promenade, è stata effettuata sia sulla base funzionale che questi avevano nell’edificio, sia analizzando un buon numero di esempi presente nel panorama architettonico contemporaneo a nostro avviso affini per localizzazione o funzione. Detto ciò, forse ci siamo da una parte “sottomessi” un pò troppo alle direttive del bando, che sottolineava più di una volta, la richiesta di una nuova fabbrica che non andasse a “contrastare” la centralità della Villa, e da un’altro punto di vista ci siamo lasciati andare a una molteplicità di soluzioni formali anche per mostrare la nostra conoscenza accademica in sede d’esame :) . Per l’allea alberata, è stata voluta la scelta di lasciarla stilizzata, per non andare a rappresentare un elementare disegno di fronde lungo la parete in corten traforata, che a nostro avviso avrebbe dato un carattere meno incisivo alla superficie. La nostra intenzione era quella di far riflettere il visitatore che passando dall’esterno, notando la parete, avrebbe potuto per un momento sviluppare un pensiero critico sulle ragioni delle forme utilizzate; forse abbiamo un pò ecceduto sul concetto di interpretazione… Per il discorso della mediazione non riuscita tra ritmicità è continuità, sempre riferendoci allo scritto Ornamento e Delitto di Loos, attraverso l’utilizzo di elementi di forma semplice e funzionale, si è creduto di poter instaurare una sinergia tra sistemi diversi.

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