Il filosofo e il tappezziere

RF: Davide: andiamo per ordine. Anzi, no: cominciamo dagli estremi. Cominciamo da lì per dire che li condivido entrambi, e infatti mi esprimevo sulla costruzione per dichiararmi sulla tua stessa lunghezza d’onda, così come da sempre sostengo l’indubitabile necessità della critica, oggi più che mai.

Andiamo invece ai punti su cui devo controbattere.

Per prima cosa, citavo Hollein, ma non certo come primo antecedente storico delle mie opinioni. Che invece trovano origine ben più indietro nel tempo, assai prima di Mies, in una magnifica definizione data da William Morris, e per me metro della sua grandissima intelligenza:

L’architettura abbraccia la considerazione di tutto l’ambiente fisico che circonda la vita umana; non possiamo sottrarci ad essa, finché facciamo parte della civiltà, perché l’architettura è l’insieme delle modifiche e alterazioni introdotte sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane, eccettuando solo il puro deserto. Né possiamo confidare i nostri interessi nell’architettura a un piccolo gruppo di uomini istruiti, incaricarli di cercare, di scoprire, di foggiare l’ambiente dove poi dovremo star noi, e meravigliarci di come funziona, apprendendolo come una cosa bell’e fatta; questo spetta invece a noi stessi, a ciascuno di noi, che deve sorvegliare e costruire il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, ciascuno con il suo spirito e le sue mani, nella porzione che gli spetta.

Ora, se pensiamo che, tutto sommato, Morris era un tappezziere, e che disse tutto questo non più tardi che nel 1881 (quando con ogni probabilità non usava nemmeno la luce elettrica), ritengo che queste affermazioni valgano come assoluti sinonimi di quelle di Hollein, che dunque non sono così estemporanee e legate a un periodo storico destinato a dissolversi nel nulla.

Veniamo dunque a Hollein. Sono certamente d’accordo sul fatto che l’architettura non è soltanto un mezzo di comunicazione (e, infatti, quel soltanto è una tua chiosa), ma sta di fatto che è anche questo, come lo sono tutte le manifestazioni sensibili del pensiero degli uomini. Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, ma è così, e lo è dalla notte dei tempi. È solo che l’abbiamo capito tardi, e quando è successo non eravamo pronti a fronteggiare la novità e ci siamo lasciati prendere dal panico postmoderno (se vogliamo dire così).

Quanto al postmoderno in quanto tale eviterei di parlare, perché si tratta di un concetto che può essere letto e travisato in talmente tanti modi che non avrei la capacità di dominare un confronto sensato intorno ad esso in questa sede (e forse neanche in altre).

Quel che posso dire, però, è che ritengo quell’articolo assolutamente superficiale (e tra l’altro pessimamente tradotto). Due sono le possibilità: o Edward Docx non si è reso conto di fare del più becero postmodernismo, riducendo il postmoderno alla superficialissima definizione di superficializzazione delle questioni, oppure ha voluto giocare a tutti noi un tiro di assoluta arguzia con un gioco di specchi in cui si è inscritto in prima persona. Ma sono alquanto pessimista.

Resto quindi della mia idea sulla necessità che l’architettura non venga affatto definita nitidamente, e che invece continui a ibridarsi e a confondersi con la totalità delle nostre vite.

DTF: Rossella, forse ce la facciamo a chiudere la querelle.

Si, meglio lasciar perdere l’articolo (che era solo un reminder della mostra).

Se mi chiami in causa Morris e la tappezzeria a me viene in mente Semper, altra bella gatta da pelare, quindi forse è meglio constatare serenamente che, evidentemente, le nostre bussole segnano un nord leggermente diverso – niente di male, ovviamente, ma più ci si avvicina al polo e più ci si rende conto che quel piccolo dislocamento, per quanto piccolo, è inevitabile.

La chiosa [soltanto] l’avrei potuta sostituire con [soprattutto], enfatizzando un po’ di meno un problema che sento molto presente nell’architettura d’oggi, ma il discorso – credo – sarebbe rimasto più o meno lo stesso: il problema non è la capacità dell’architettura di comunicare – che le è intrinseca, come del resto in qualsiasi prodotto artificiale – ma l’importanza che si dà all’espressione di tale capacità mentre si fa architettura, dato che dagli anni settanta sappiamo che il linguaggio è viziato, che significato e significante non corrispondono mai, e che la comunicazione è soggettiva (per intenderci: se io penso che un certo progetto dica una cosa, per te ne dirà sicuramente un’altra, etc., perché siamo tutti diversi). La comunicazione, dunque, meglio accettarla come effetto secondario del fare architettura, piuttosto che assumerla come criterio fondativo, dato che non la si può controllare. Io direi allora, piuttosto, che tutto è comunicazione, ma che non tutto è architettura.

Resto quindi della mia idea sulla necessità che l’architettura venga definita il più nitidamente possibile, per poi ibridarla e confonderla – consapevolmente e non a casaccio – con la totalità delle nostre vite.

RF: Pari e patta allora! E onore delle armi.

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