Il filosofo e il tappezziere

RF: Davide: non credo che quello che tu dici sia in antitesi con quello che ho scritto sopra. E tuttavia tu confini la teoria alla spiegazione diretta delle forme e, dunque, a quei fatti che costituiscono il bacino culturale di giustificazione di un fatto stilistico.

Per me essere un teorico significa allargare lo sguardo molto oltre questo atteggiamento, che è per l’appunto ciò che non avviene in Italia da secoli. È per questo che i nostri massimi teorici si chiamano Purini e Portoghesi, e non Koolhaas.

DTF: Certo Rossella, sono totalmente d’accordo con te sul fatto che la teoria vada (anche) ben oltre la giustificazione delle scelte formali (preferisco non parlare di stile): quelli che ho fatto prima sono solo tre esempi di come, alla fine della fiera, anche processi progettuali apparentemente liberi dalla teoria dell’architettura, in realtà, non lo siano affatto. Credo però che sia importante sottolineare che la teoria dell’architettura, per essere chiamata tale, in un modo o nell’altro deve comunque relazionarsi all’essenza della disciplina, che è la “costruzione” (intesa nel senso del termine più ampio possibile, così come la intendeva Mies, insomma), se no il rischio è quello che, come spesso è successo negli ultimi decenni con Derrida and friends, si sfori nei campi della pura speculazione filosofica, o della sociologia, etc etc etc… e allora capisco perfettamente la “diffidenza” di chi fa la professione rispetto a chi ne dovrebbe sviluppare teoricamente i presupposti disciplinari.

RF: C’è qualcosa in questo discorso che non mi convince, e credo che sia il fatto che ci ostiniamo a separare cose che devono stare insieme, come se gli architetti fossero ancora destinati ad essere – se mai lo sono stati – professionisti solitari, ai quali non si può chiedere di essere tuttologi.

Non è più così: se oggi vuoi fare l’architetto entrando nella storia (e con questo non intendo “entrando nei libri di storia”, bensì entrando pienamente nel tuo tempo e in quello a venire), devi creare una squadra capace di spaziare su tutto. E i teorici servono quanto gli impiantisti, a mio avviso. So che è un’affermazione impopolare, ma credo sia solo un tabù nostrano.

Sempre perché evidentemente, a mio avviso, fare architettura non significa più (solo) fare scatole per abitare. Il mondo è molto più complesso di così.

DTF: Non questiono in alcun modo la multidisciplinarietà dell’architettura,Rossella, anzi, se c’è una pratica che per definizione deve (o dovrebbe) confrontarsi con tutti i campi del sapere – da quelli umanistici a quelli scientifici – quella è proprio l’architettura, certo.

Però, mi chiedo, qual’è l’obiettivo di tutto questo ambaradan, se non quello di costruire scatole per abitare (o gli spazi tra le scatole per abitare, o gruppi di scatole per abitare) “migliori” – passami il termine – di quelle che già ci sono? Il mondo è complessissimo, certo, e l’architetto non può evitare di confrontarsi, se vuole fare bene il suo lavoro, con la sua complessità. Ma fino a prova contraria lo fa – prima di tutto – per progettare edifici e/o spazi pubblici e/o privati.

Questo perché l’architettura, lo diceva già Tafuri, è una disciplina diversa dall’urbanistica, dal visual planning, dalla pianificazione territoriale, dalla progettazione del paesaggio etc… Quella dell’estensione dello stesso approccio, quello architettonico, a tutte le scale della progettazione (dal cucchiaio alla città), è un’idea degli anni ’20 che si è rivelata – a nostre spese – sbagliata, e che si basava sulla fiducia illuminista nella capacità del “progetto” di creare una società ordinata (oltre che sulla convinzione che la missione degli architetti fosse quella di salvare il mondo).

Sono d’accordo con te: un architetto, una volta confrontatosi con la complessità del mondo, può fare tantissime cose, oltre che scatole per abitare: realizzare oggetti di design, progettare città, pianificare interi territori, scrivere libri di filosofia, lanciare mode, curare mostre, candidarsi a sindaco, etc… Semplicemente, però, non credo che tutte queste altre attività siano, propriamente, “architettura”: neanche quando è un architetto a compierle.

Il fatto è che non vedo nessun vantaggio nell’estendere oltre misura i confini della parola “architettura”. Già Baudelaire scriveva che «la principale caratteristica della decadenza è il tentativo sistematico di demolire le frontiere convenzionali che esistono tra le diverse arti»: oggi, apparentemente, tutto è architettura, ed è proprio per questo motivo che è scattata la trappola del “tutto vale”, impossibilitando così qualsiasi discorso critico che abbia la pretesa di essere fondato su qualcosa che non sia l’opinione personale.

Per questo, nei post precedenti, ho posto in maniera così marcata l’accento sul problema della “costruzione”: perché mi sembra che oggi ci sia l’urgenza di tornare a considerare l’architettura per ciò che è, e per ciò che è sempre stata. Solo così, credo,si può riattivare un discorso critico operativo su di essa: e cioè ristabilendo, prima di tutto, il suo centro disciplinare, per poi declinarlo nella cultura del nostro tempo, ed infine ricominciare a misurare le distanze da esso di ogni progetto.

…continua alle pagine 3 e 4 (clicca sotto)

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